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Antoine Jaccoud e l’arte di far vivere le parole

Alla 51esima edizione delle Giornate cinematografiche di Soletta, il 59enne Antoine Jaccoud sarà insignito del premio d'onore, una ricompensa attribuita a coloro che lavorano nell'ombra del cinema svizzero. Paulin Jaccoud

Dalla sua penna nascono storie e personaggi: al cinema con Ursula Meier, a teatro e negli spazi pubblici. Osservatore acuto e con uno spiccato senso dell'umorismo, Antoine Jaccoud ha messo la sua scrittura al servizio dell’oralità e ne ha fatto un’arma di contropotere. Il festival di Soletta rende omaggio a questo drammaturgo e sceneggiatore con il Premio d’onore. 

Ha uno sguardo penetrante e un sorriso timido, Antoine Jaccoud. Soppesa le parole, gestisce i silenzi, facendo attenzione che la sua interlocutrice non perda il filo tra il chiacchiericcio dei tavoli vicini. “Cosa vuole? Ordino io!”, mi dice dirigendosi verso il bancone. Sembra essere di casa al Café Romand, una vecchia brasserie nel centro storico di Losanna. Lo incontriamo in un giorno di debolezza: l’influenza l’ha acchiappato e per liberarsi sorseggia un tè, avvolto in un grosso maglione di lana.

Antoine Jaccoud non ama essere al centro dell’attenzione. “Fondamentalmente sono una persona estremamente ansiosa. Ma sono anche un osservatore acuto e ho trovato il modo di fare di queste due caratteristiche un lavoro”. Il tutto combinato con uno spiccato senso dell’umorismo. “Altrimenti sarebbe terribile”.

Il suo mestiere? Giocare con le parole, metterle al servizio di una voce, di un corpo, di una musica. “È l’oralità a fare da filo conduttore”. Antoine Jaccoud è drammaturgo, sceneggiatore, autore di teatro, scrittore e una sorta di cantastorie . Mestieri diversi che occupano tutti uno spazio particolare nella vita di questo 59enne. Ridurre il suo ruolo a “semplice” sceneggiatore di Ursula Meier e dei suoi due film “Home” (2008) e “L’enfant d’en haut” (2012, Orso d’argento a Berlino) sarebbe come tagliarli una gamba. 

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Dopo una laurea in scienze politiche, inizia a lavorare come giornalista cinematografico per il settimanale L’Hebdo. Ma poi un giorno, in un caffè, si ritrova faccia a faccia con il regista svizzero Michel SoutterCollegamento esterno che gli dà del bastardo. La critica negativa al suo film “Signé Renard” (1985) proprio non gli è andata giù. È la goccia che fa traboccare il vaso per Antoine Jaccoud, che decide di abbandonare coloro che commentano per raggiungere i ranghi di coloro che fanno. Parte così per uno stage di scrittura con Krzysztof Kieslowski, il regista polacco della magica “Trilogia dei colori”.

Dal 1995 al 2005 lavora come drammaturgo per la compagnia losannese Théâtre en FlammesCollegamento esterno. Osserva gli attori muoversi e parlare; comincia a scrivere delle pièce e a comprendere le sottigliezze della lingua al servizio dell’oralità. I trucchi del mestiere, insomma. “Se scrivo in un libro ‘perché, perché, perché’ non è forzatamente interessante, ma messo al servizio di un’interpretazione può contribuire ad aumentare la tensione”.

Fin da piccolo Antoine Jaccoud giocava ad imitare gli altri. “Mio padre era un grande osservatore e ho imparato molto da lui. Mentre mia madre aveva un grande senso del dramma”. 

Organizzare il viaggio dello spettatore

Parallelamente al teatro, iniziano le prime esperienze cinematografiche con una serie di cortometraggi e due documentari firmati da Jean-Stéphan Bron: “Connu de nos services”Collegamento esterno (1997) e “La bonne conduite (Cinq histoire d’auto-école)”Collegamento esterno (1999). Collabora tra l’altro con Denis Rabaglia alla scrittura del lungometraggio “Azzurro”Collegamento esterno, con Dominique de Rivaz per “Luftbusiness”,Collegamento esterno 2008 e con la documentarista Jacqueline Veuve, scomparsa nel 2013, per “Un petit coin de paradis”,Collegamento esterno 2008. 

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E poi l’incontro con Ursula Meier e l’inizio di una collaborazione che lo porta per due volte a vincere il Premio svizzero per la sceneggiatura.

Quest’anno anche il festival di Soletta ha deciso di ricompensare Antoine Jaccoud con il Premio d’onore, destinato proprio a coloro che lavorano nell’ombra, lontani dalle luci dei riflettori.

“Lo sceneggiatore è colui che organizza il viaggio dello spettatore e sta forzatamente dietro le quinte”. È però lui a fabbricare i personaggi, a dar loro una personalità sufficientemente forte da poter emergere. “Ciò che conta è costruire una batteria e un motore all’interno dei personaggi. Poi sono loro che ti portano e che ti dicono cosa vogliono fare. Se smettono di parlarti significa che hai sbagliato qualcosa! Ma non c’è nulla di esoterico…”.

Appena può, Antoine Jaccoud cerca di non abbandonare i suoi personaggi troppo in fretta. Con Ursula Meier ripete le scene il giorno prima delle riprese e talvolta è presente sul set, per ricordare agli attori quanto arrabbiati, delusi, felici siano i loro personaggi. E dopo mesi trascorsi al loro fianco, abbandonarli “è sempre un po’ doloroso”, così come scoprirli sul grande schermo, tre o quattro anni dopo, può rivelarsi “un piccolo momento di angoscia”.

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A Soletta non sarà premiato soltanto Antoine Jaccoud lo sceneggiatore, ma anche il maestro. Ed è forse questo a fargli più piacere. Insegnante per diversi anni all’ECAL di Losanna, membro di giurie e “script doctor”, Antoine Jaccoud ha giudicato, riletto o corretto diverse centinaia di sceneggiature. E non solo in Svizzera. Insegna a Varsavia, viene chiamato a Parigi, organizza work-shop in Georgia, per citarne alcuni.

Ed è forse questa esperienza a 360° a permettergli di giudicare con sguardo un po’ critico il cinema svizzero. Un cinema che troppo spesso manca di tensione e di conflitti.

“Non so se è una questione culturale… Sta di fatto che la Svizzera è tutt’altro che perfetta. Siamo un paese di traffico d’armi, di scandali bancari, eppure sono pochi i registi a servirsi di questi spunti”. A parlare non è uno “spocchioso o un vecchio brontolone”, ma un uomo che ama il cinema e vede le potenzialità troppo poco sfruttate. “Se gli archeologi dovessero guardare la società svizzera attraverso il prisma del cinema contemporaneo, cosa ne ricaverebbero? Probabilmente poco o nulla. Qual è la tensione che ci affligge? È questo che dovremmo riflettere nei nostri film”.

A suo agio col tedesco, Antoine Jaccoud è anche uno dei rari artisti svizzeri ad essere riuscito a superare le frontiere linguistiche e si batte per una migliore diffusione dei film elvetici nelle diverse regioni. “Anche perché sono i contribuenti che li pagano”. 

La libertà nell’immediatezza

Scrittore compulsivo, artista poliedrico, Antoine Jaccoud è alla continua ricerca di un equilibrio artistico, intellettuale ed economico. Se i soldi sono nel cinema, e lui ha “una famiglia da sfamare”, la libertà sembra trovarla nel teatro e soprattutto nelle letture pubbliche dei suoi testi, accompagnato da un pianista o da altri scrittori membri del gruppo Bern ist überallCollegamento esterno. La libertà sta nella lingua, affrancatasi dalle ferree regole dei copioni, nell’immediatezza, nel contatto diretto con la gente e nella possibilità di denunciare in qualche modo “uno sconforto filosofico e esistenziale” (Detresse).

“Mi ci è voluto molto tempo per imparare a parlare in prima persona. Ma penso che sia fondamentale riprendere la parola nello spazio pubblico. La politica non è morta. Non sopporto che la gente se ne freghi dell’avvenire del nostro pianeta o del nostro paese”.

La sua penna si scaglia con umorismo contro la psicosi dell’influenza aviaria, ci parla dei jihadisti che attendono le vergini in paradiso o di un uomo che si scusa di aver votato sì all’iniziativa “contro l’immigrazione di massa”: “Non lo sapevo. Non mi ero informato davvero. Pensavo che bisognasse dire di sì a causa di tutti quei Rom che mendicano (…). Non si potrebbe rivotare? Perché mio figlio vorrebbe seguire il programma Erasmus. (…) Credo che bisognerebbe rivotare. Credo che abbiamo fatto una stupidata. E anche mia moglie la pensa così”*.

La scrittura come contropotere, ci dice il sociologo che è in lui. “Questa sensazione di smarrimento in cui ci troviamo è appassionante e angosciante allo stesso tempo. Ma credo che sia necessario parlarne. E farlo attraverso l’umorismo e l’ironia è un modo per favorire il dibattito”. 

*Tratto dal blog di Antoine Jaccoud sul sito Journal B, un magazine online tenuto da giornalisti, artisti e intellettuali vicini alla città di Berna

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