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Quando il Ticino si sentiva un po’ italiano

Durante il Risorgimento, Villa Ciani a Lugano fu un importante centro di diffusione delle idee progressiste Keystone

Se vi è una regione che ha guardato con particolare attenzione alle vicende che hanno portato all'unità d'Italia questa è la Svizzera italiana e il Ticino in particolare. Nel cantone a sud delle Alpi, i moti risorgimentali hanno suscitato una grande simpatia.

Spesso la lingua la dice lunga sul rapporto tra due comunità: badino, badola, taglian, térun, bògia, maiaramina… I ticinesi non sempre portano gli italiani nel cuore.

Certo, ogni generalizzazione è pericolosa e sicuramente solo una piccolissima parte di ticinesi va in giro per le strade a strombazzare dopo le sconfitte della nazionale di calcio azzurra. Comunque è innegabile che la relazione col grande vicino è spesso ambigua, di amore-odio, per utilizzare un luogo comune.

Eppure non è sempre stato così. «Nel corso del XIX secolo, e in particolare nel 1848 durante le Cinque giornate di Milano e nel 1859 durante la Seconda guerra d’Indipendenza, in Ticino vi era un sentimento molto marcato di appartenenza alla nazione italiana, nazione nel senso Ottocentesco del termine, ossia una comunione di lingua, di cultura, ecc.», spiega Gianmarco Talamona, archivista all’Archivio di Stato del canton Ticino.

Questo stato di cose ha in seguito subito profondi mutamenti. La Grande guerra ha rappresentato una prima svolta. Il ventennio fascista e la Seconda guerra mondiale hanno poi definitivamente radicato nei ticinesi il sentimento «di essere molto più svizzeri che italiani».

Affinità politiche e legami d’amicizia

Dopo la rivoluzione liberale del 1830, il Ticino era diventato terra di rifugio per molti patrioti italiani, costretti a fuggire dalle repressioni austriache. Da qui potevano continuare indisturbati – o quasi – ad agire per la causa indipendentista. La Tipografia Elvetica di Capolago è uno degli esempi più conosciuti: fondata nel 1830 dall’esule genovese Alessandro Repetti, la stamperia era uno dei canali più importanti per diffondere le opere patriottiche in Italia attraverso il Regno Lombardo-Veneto.

Le affinità politiche non erano però l’unico legame tra i progressisti ticinesi e i patrioti italiani. «Entrambi, certo, condividevano gli ideali di democrazia, libertà, emancipazione… D’altro canto vi erano però anche ragioni più personali, dei legami di vicinanza, d’amicizia, a volte famigliari », spiega Gianmarco Talamona.

Ad esempio, Carlo Cattaneo, uno dei principali protagonisti delle Cinque giornate di Milano, che riparò in Ticino alla fine del 1848, aveva stretto amicizia con Stefano Franscini già nel 1815, quando entrambi studiavano al Seminario Arcivescovile del capoluogo lombardo. Cattaneo visitò la Svizzera nel 1821 assieme al futuro consigliere federale (Franscini diresse il Dipartimento federale dell’interno dal 1848 al 1857) e collaborò con lui alla traduzione della Storia della Svizzera per il popolo svizzero di Heinrich Zschokke.

Volontari

Questi legami si manifestarono in tutta la loro forza soprattutto nel 1848. «I ticinesi si sentivano implicati in questi moti popolari», sottolinea Talamona. Molti di loro – circa un migliaio considerando anche gli altri confederati – non esitarono ad imbracciare le armi per combattere a fianco degli insorti durante le Cinque giornate di Milano e la prima guerra d’indipendenza italiana.

Nel triennio decisivo per l’unità italiana (1859-1861), la partecipazione «fu senza dubbio minore», precisa lo storico ticinese. «Se nel 1848 si trattò soprattutto di una guerra di popolo che riguardava principalmente la Lombardia – quindi un’entità vicina – nel 1860 fu invece una guerra tra Stati in una prospettiva più ampia».

Naturalmente anche in Ticino non tutti appoggiavano gli indipendentisti. Il cantone era percorso da feroci lotte politiche e, se i radicali solidarizzavano con i patrioti, ben diversa era la posizione dei conservatori che, per esempio, nel 1839 avevano decretato l’espulsione dei mazziniani Giacomo e Filippo Ciani.

Il blocco del 1853

Il sostegno ticinese alla causa italiana causò non pochi attriti con l’Austria e creò molti grattacapi anche al governo federale.

L’apice fu raggiunto nel 1853 con il blocco totale della frontiera decretato dall’Austria, che durò due anni, e l’espulsione di 6’000 ticinesi dal Regno Lombardo-Veneto. La chiusura della frontiera, che fu anche una misura di ritorsione per la politica di secolarizzazione portata avanti dal governo ticinese, ebbe pesanti conseguenze soprattutto nel Mendrisiotto e in parte nel Luganese, regioni che vivevano soprattutto degli scambi con la vicina Lombardia. Inoltre, non potendo più entrare in Lombardia, molti ticinesi cercarono nuove mete di emigrazione: dapprima Francia e Inghilterra, poi Stati Uniti e Australia,

«Il fatto che il governo ticinese chiuse un occhio sulle attività cospirative e non badò troppo alla questione della neutralità, causò diversi problemi anche alla Confederazione, confrontata alle pressioni austriache», aggiunge Talamona.

Le sirene irredentiste

Berna, inoltre, guardava con una certa inquietudine alle manifestazioni di solidarietà ticinesi nei confronti dei «fratelli» lombardi e alla loro fedeltà nei confronti della Confederazione. «Proprio per la sua multiculturalità, la Svizzera poteva temere di dover subire l’affermarsi delle teorie nazionali che portarono all’unità italiana o tedesca. Era legittimo chiedersi quale sarebbe stata la posizione del Ticino di fronte alla sirene nazionali che suonavano dalla penisola. Di fatto il Ticino prima del 1859 poteva essere in un certo senso considerato uno Stato italiano nel fascio della Confederazione svizzera».

Sirene che effettivamente non mancarono di suonare. Dopo l’unità vi furono alcuni proclami che invitavano i ticinesi a ritornare nella madre patria o anche discorsi più aggressivi, che rasentavano la politica espansionistica.

Questi discorsi però non attecchirono né in Ticino, né nei Grigioni italiano (la situazione cambierà all’inizio del XX secolo in un tutt’altro contesto, vedi documento a lato La frontiera comune). «Nel periodo post-unitario, non ci sono testimonianze di ticinesi sensibili a questi argomenti. Attraverso la stampa e anche tramite petizioni inviate alle autorità federali, proclamarono sempre il loro attaccamento alla Svizzera appoggiandosi su un argomento molto chiaro e semplice», spiega Gianmarco Talamona. «In sostanza, senza negare la propria italianità, sottolineavano lo spirito repubblicano che animava il cantone e la loro avversione per il sistema monarchico».

Le conseguenze economiche, sociali e politiche sul Ticino dell’unità d’Italia sono ancora ampiamente da esplorare, spiega Gianmarco Talamona. Uno degli aspetti da valutare, ad esempio, è l’evoluzione della permeabilità della frontiera.

Per molti decenni, la frontiera ha comunque rappresentato una risorsa grazie alla pratica del contrabbando, favorita dai diversi ordinamenti fiscali; un regime tributario liberale in Svizzera e uno maggiormente protezionista in Italia, sottolinea lo storico Adriano Bazzocco.

Già sotto gli austriaci, i traffici transfrontalieri erano però intensi. Prima del 1859, il contrabbando aveva anche una dimensione patriottica: non pagando i dazi si sottraevano soldi all’erario austriaco.

Con l’unità, la situazione non cambiò, poiché lo Stato italiano, non potendosi privare delle entrate legate a dazi, sostanzialmente non modificò la politica doganale.

I traffici riguardavano beni come tabacco, caffè, zucchero… Nella seconda metà dell’Ottocento, in Ticino si svilupparono molte manifatture di tabacco a ridosso della frontiera. Nella Val Poschiavo, nei Grigioni, sorsero invece, soprattutto nel secondo dopoguerra, molte torrefazioni di caffè.

A contrabbandare erano gli italiani, mentre gli svizzeri si limitavano principalmente a fornire la merce. Siccome questi traffici non recavano alcun danno all’erario svizzero, le autorità elvetiche erano tolleranti. Da parte italiana, invece, si cercò di lottare contro questo fenomeno, che creò anche tensioni tra i due Stati. Nel 1878, ad esempio, Roma minacciò di non concludere delle intese commerciali con la Svizzera, se Berna non avesse sottoscritto un accordo doganale, che tra le altre cose avrebbe permesso alle guardie di finanza di sconfinare in territorio elvetico per arrestare i contrabbandieri.

Il contrabbando andò avanti fino alla metà degli anni 1970, quando la svalutazione della lira fece venire meno i margini di guadagno.

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