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Quando i mediatori si pestano i piedi

Thomas Kern

La maggior parte dei conflitti armati non viene più risolta con la forza, ma al tavolo delle negoziazioni. L’aumento del numero di attori di mediazione osservato negli ultimi anni può tuttavia rivelarsi controproducente, fino a compromettere l’intero processo di pace, avverte uno studio.

«A volte è una corsa al premio Nobel per la pace», afferma a swissinfo.ch l’esperta di mediazioni di pace Rachel Gasser. «Un numero crescente di attori di mediazione cerca opportunità per partecipare ai processi di pace».

Una tendenza di per sé positiva, osserva la collaboratrice della Fondazione svizzera per la pace swisspeace. «Ognuno contribuisce con le proprie competenze al processo di pace». La competizione tra i mediatori, in particolare tra organizzazioni internazionali e regionali, rappresenta però un serio problema in alcuni paesi in conflitto, puntualizza.

«Se non viene affrontata, rischia di compromettere il processo di pace», scrive Rachel Gasser nello studio “A crowded field: competition and coordination in international peace mediation” (Un settore affollato: competizione e concorrenza nella mediazione di pace internazionale), pubblicato nel febbraio 2013.

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Mediazione più complessa

La mediazione è uno strumento efficace: negli ultimi 20 anni, l’80% dei conflitti si è concluso grazie a una negoziazione di pace. Tra il 2001 e il 2008, soltanto cinque conflitti si sono chiusi con una vittoria militare, mentre 17 si sono risolti attraverso la mediazione, si legge in un documento del Dipartimento federale degli affari esteri (DFAE).

Con la fine della Guerra fredda, la natura dei conflitti è cambiata. In generale, ad affrontarsi non sono più due paesi, bensì un governo e un gruppo ribelle oppure diversi gruppi armati, che combattono all’interno di uno Stato o a livello transfrontaliero.

Di conseguenza, anche la mediazione si è evoluta. In passato si puntava soprattutto a raggiungere un armistizio e a migliorare la situazione sul fronte della sicurezza, indica il DFAE. Oggi, invece, le negoziazioni sono diventate più complesse: si affrontano anche questioni legate al federalismo, all’autonomia locale, alla ripartizione delle ricchezze o alla suddivisione dei poteri.

«Si mira a una pace duratura, coinvolgendo, oltre alle élite politiche, anche le comunità locali, la società civile, le donne e le vittime del conflitto», spiega Rachel Gasser, che attualmente sta sostenendo il processo di pace in Myanmar.

Anche per queste ragioni, aggiunge l’esperta, non c’è più un solo mediatore, ma una squadra di mediatori.

Nuovi arrivati

Tra i principali mediatori di conflitti vi sono le Nazioni Unite, le organizzazioni regionali quali l’Unione europea (premiata con il Nobel della pace nel 2012) o l’Unione africana, le grandi potenze e le organizzazioni non governative (ong). A questi si aggiungono i piccoli Stati come la Norvegia o la Svizzera.

Negli ultimi anni, numerose organizzazioni internazionali, ong e nazioni – tra cui Qatar, Turchia, Finlandia – si sono profilate come mediatori in diverse regioni del pianeta, constata Rachel Gasser.

Dopo il 1992, il numero di processi di pace all’anno è diminuito, ma il numero di attori di mediazione per un dato conflitto è aumentato in modo significativo, si legge nello studio realizzato assieme a David Lanz dell’Università di Basilea. Un incremento legato al nuovo contesto globale, più aperto, creatosi dopo la fine della Guerra fredda e al crescente riconoscimento internazionale della mediazione.

Nel nostro settore sono apparsi dei nuovi arrivati, conferma David Harland, direttore del Centro per il dialogo umanitario di Ginevra. «È una bella notizia perché dimostra che la mediazione ottiene buoni risultati. Ma questo fatto è pure problematico: sempre più parti terze si muovono nell’oscurità e ha volte ci si pesta i piedi», afferma in un’intervista al quotidiano Le Temps.

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Agire per interessi personali

I fattori che alimentano la competizione tra gli attori di mediazione sono essenzialmente tre. «Gli interessi contrastanti degli Stati, le dispute tra organizzazioni con mandati sovrapposti e i disaccordi sui principi e i valori della politica internazionale e della risoluzione dei conflitti», rileva Rachel Gasser dopo aver analizzato tre conflitti in Africa (Sudan, Kenya e Madagascar).

Gli Stati, spiega, tendono ad offrire un ruolo di primo piano a quei gruppi con i quali hanno una relazione privilegiata. E che quindi potranno essere utili alla fine del conflitto. Questo spinge i mediatori a lanciare iniziative di pace parallele, così da avere il controllo sul processo.

Il caso del Sudan è significativo, osserva Rachel Gasser. «Il lancio di un’iniziativa congiunta Egitto-Libia nel 1999, che era in diretta competizione con il processo iniziato dall’Autorità intergovernativa per lo sviluppo [IGAD, un’organizzazione politica-commerciale che riunisce i paesi del Corno d’Africa, ndr], era motivata soprattutto dalla preoccupazione che il processo di pace avrebbe minacciato gli interessi nazionali».

L’allora governo Mubarak temeva che un voto sull’autodeterminazione del Sudan del Sud – come proposto dall’IGAD – avrebbe portato a un conflitto attorno alle acque del Nilo. Gheddafi voleva dal canto suo mantenere stretti contatti con l’ex primo ministro sudanese

A rendere problematica la competizione tra le Nazioni Unite e le organizzazioni regionali è invece il sovrapporsi dei mandati. In Madagascar, l’ONU, l’Unione africana e la Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale avevano tutte un mandato di mediazione. Le tre entità intendevano contribuire positivamente al processo di pace, puntualizza Rachel Gasser. Tuttavia, si è dovuto procedere a lunghe discussioni, ciò che ha rallentato il processo di pace.

Migliorare la collaborazione

Per mitigare gli effetti negativi di questo “affollamento”, ed evitare ad esempio che le parti in conflitto vadano alla ricerca del mediatore che offre loro il miglior compromesso, gli autori dello studio hanno formulato alcune raccomandazioni.

«Si potrebbe adottare un coordinamento gerarchizzato, dove viene definito chiaramente chi è l’attore di mediazione principale. A lui spetta il compito di assegnare ruoli specifici ai mediatori. Se necessario, deve poterne coinvolgerne altri o escludere quelli che non collaborano in modo utile», indica lo studio.

Il leader deve essere riconosciuto dalla comunità internazionale, dalle parti coinvolte e dalla società colpita dal conflitto. Un esempio è il ruolo di Kofi Annan in Kenya, rileva Rachel Gasser. «In qualità di ex segretario generale dell’ONU, aveva la necessaria autorità per respingere i tentativi di chi voleva interferire con la sua mediazione lanciando processi paralleli».

Un secondo tipo di cooperazione prevede che gli attori di mediazione lavorino insieme, in modo coordinato e sullo stesso livello. Viene fissata una strategia comune e ci si suddividono i compiti. In questo caso, il motore del processo è «l’unità di intenti», sottolinea la collaboratrice di swisspeace.

Il coordinamento tra le agenzie di mediazione non è comunque la soluzione universale, riconosce Rachel Gasser. «Se le parti in conflitto preferiscono la guerra alla pace, anche il meccanismo di coordinamento più sofisticato risulterà inefficace».

La Svizzera è riconosciuta come un’importante attore di mediazione internazionale. Le ragioni sono legate essenzialmente alla sua neutralità, al fatto di non appartenere ad alcun blocco (Ue, Nato,..) e di non avere un passato coloniale, così come al suo modello di Stato federalista e multiculturale.

Dal 2000, la Svizzera è stata implicata in più di una ventina di negoziazioni di pace in una quindicina di paesi. Tra questi si possono citare Nepal, Sri Lanka, Georgia, Sudan, Uganda, Colombia, Messico e Somalia.

L’azione elvetica può manifestarsi in diverse forme. Ad esempio partecipando direttamente alle negoziazioni oppure assegnando degli esperti elvetici a squadre di mediatori dirette dalle Nazioni Unite o da organizzazioni regionali.

La Svizzera organizza anche incontri tra le parti in conflitto. Nel 1985 a Ginevra, si è ad esempio svolto il primo incontro tra l’allora presidente statunitense Reagan e il leader sovietico Gorbaciov.

Nella mediazione, il Dipartimento federale degli affari esteri coopera strettamente con organizzazioni non governative, come il Centro per il dialogo umanitario di Ginevra o l’inglese Conciliation Resources.

Una risoluzione delle Nazioni Unite adottata nel 2000 incoraggia l’implicazione delle donne nei processi di pace (risoluzione 1325 “Donne, pace e sicurezza”).

Le donne contribuiscono alle negoziazioni con esperienze e prospettive diverse, spiega a swissinfo.ch Flore Brannon del Centro per il dialogo umanitario di Ginevra (Centro HD). «La dinamica di un processo risulta così differente».

Al Centro HD sono attualmente oltre una decina le donne coinvolte in attività di mediazione.

Malgrado una maggiore sensibilizzazione, la rappresentazione femminile nelle negoziazioni rimane tuttavia ancora limitata, rileva Flore Brannon.

Nel 2011, soltanto 4 negoziazioni su 14 co-dirette dall’ONU hanno visto la partecipazione di delegazioni che comprendevano anche delle donne.

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