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Rio 2016, i rifugiati fanno squadra

Il team per chi non ha più bandiera, voluto dal CIO, è una prima nella storia delle Olimpiadi; rappresenta 60 milioni di persone nel mondo

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Judo, nuoto, corsa, non è la disciplina ad accomunare questa squadra speciale: a unire questi sportivi è la forza che hanno avuto, per scappare da violenze e persecuzioni. Storie che hanno ispirato il Comitato olimpico internazionale (CIO) a intraprendere una sfida inedita, creare una squadra di rifugiati. Dieci atleti senza casa né bandiera che rappresentano uno “stato” che nel mondo conta ormai circa 60 milioni di persone.

“Siamo davvero sorpresi, non avremmo mai potuto immaginare che questo sarebbe stato possibile”, dice la rifugiata sud-sudanese Lokonyen Rose Nathike. “Nella mia vita non ho mai potuto credere che correre mi avrebbe potuto portare fino a qua. A me interessa solo lo sport.”

Yusra Mardini, inece, nuotava per la nazionale siriana. Ha nuotato anche per portare in salvo il gommone carico di rifugiati che come lei che stavano scappando verso l’isola greca di Lesbo: “La guerra nei nostri paesi ci rende tristi, ma non uccide i nostri spiriti. Mi sono detta un sacco di volte: non sparire, non mollare, ce la farai. E ringrazio il comitato olimpico internazionale per questa squadra speciale che ha creato, spero che continuerà a darci il suo sostegno.”

Da adesso, per loro, conterà solo una cosa, in pieno spirito olimpico: partecipare ai Giochi.

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