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Rifugiati: quanto fa male la retorica della paura

Rifugiati: quanto fa male la retorica della paura tvsvizzera

di Maurizio Ambrosini, laVoceInfo

A quanto sembra, gli arrivi dal mare di barche di richiedenti asilo non erano un effetto dell’operazione Mare Nostrum. Gli sbarchi proseguono, malgrado la brutta stagione. Avvenivano prima, tanto da aver richiesto una ben maggiore assunzione di responsabilità da parte italiana dopo le tragedie dell’ottobre 2013, e avvengono ora, dopo la fine della contestata operazione di salvataggio voluta dal Governo Letta. Le polemiche, esterne e interne, erano pretestuose.

La nuova operazione Triton (definita in un primo tempo Frontex Plus, più appropriatamente) ha quattro caratteristiche. Anzitutto, costa meno: per quel che è dato sapere, circa 2,5 milioni di euro al mese contro gli oltre 9 di Mare Nostrum. In secondo luogo, ha un raggio d’azione ufficiale più limitato: 30 miglia marine dalle nostre coste, contro un impegno che arrivava di fatto fino alle acque territoriali libiche. Terzo, ha coinvolto in una certa misura mezzi di altri paesi dell’Unione Europea, dunque è più condivisa. Quarto, ha rilanciato gli obiettivi del controllo delle frontiere e del contrasto dell’immigrazione irregolare, ponendo in secondo piano il salvataggio delle vite umane in pericolo. Il quarto punto spiega il terzo: i partner europei hanno offerto una certa collaborazione, purché fosse chiaro che si trattava di frenare gli arrivi.

Poi, i fatti si sono incaricati di smentire o almeno di ridefinire le politiche dichiarate. Sono avvenuti nuovi naufragi, purtroppo, ed è diventato realtà quanto si temeva: che ogni euro risparmiato, ogni miglio marino abbandonato, avrebbero pesato sulla contabilità delle vite perse e dei diritti umani fondamentali. D’altronde, la nostra Marina militare, di fronte agli sos delle barche in pericolo, è intervenuta anche al di là dei limiti territoriali fissati. Ma dispone ora di meno mezzi e di minor copertura politica. Ha subito attacchi per aver salvato naufraghi al di fuori della zona di competenza.

Avanza ora una nuova campagna della paura. Come in occasioni precedenti, quando alti esponenti governativi avevano parlato di “tsunami umano”, di esodo biblico, di rapporti dei servizi segreti che annunciavano centinaia di migliaia di profughi pronti a partire, si riparla di porti libici gremiti di nuovi partenti: 500mila, secondo le voci passate alla stampa. Ora in più c’è l’Isis, che caricherebbe a forza i profughi sulle barche per scagliarli contro l’Italia. Come se non ce ne fossero a sufficienza, a seguito dei tanti focolai di guerra tra Africa e Medio Oriente.

Questa macchina allarmistica indirizza gli strali soprattutto contro i trasportatori, i cosiddetti trafficanti di morte: non potendo respingere o affondare le barche, dovendo accogliere chi chiede asilo, si condannano coloro che a pagamento, bene o male, li conducono verso la salvezza. Si dice di voler contrastare il traffico di esseri umani, ma in realtà si vogliono scongiurare gli arrivi dei rifugiati.

Vediamo ora qualche dato, prima di sentirci vittime di un’invasione. Prima di tutto, i flussi migratori complessivi verso l’Italia sono diminuiti, per effetto della crisi economica, e non aumentati, come scritto in più occasioni anche da autorevoli quotidiani: gli ingressi erano più di 400mila all’anno fino al 2009, nel 2013 sono scesi a poco più di 250mila. In ogni caso, i nuovi ingressi regolari (perlopiù dall’Est Europa) sono più degli sbarcati: 178mila nel 2014. E tra coloro che sono arrivati illegalmente via mare, meno di 70mila hanno presentato richiesta di asilo in Italia. Gli altri non sono fantasmi che circolano nell’ombra: hanno oltrepassato le frontiere senza farsi registrare, con la benigna tolleranza delle autorità italiane, per chiedere asilo altrove.

I paesi dell’Europa centro-settentrionale, per non dire della Turchia, accolgono molti più rifugiati di noi: nel 2013, al netto delle nuove domande, 232mila in Francia, 190mila in Germania, 126mila nel Regno Unito, 114mila in Svezia, contro 78mila dell’Italia. Se poi allarghiamo lo sguardo, scopriamo che la Turchia, che accoglieva 600mila rifugiati nel 2013, ora ne dichiara oltre un milione; il Libano pure, e ne ha più di 200 ogni mille abitanti (noi poco più di 1, la Svezia 9, Malta 23). Complessivamente, l’86 per cento degli oltre 50 milioni di rifugiati del mondo sono accolti nel cosiddetto Terzo mondo. L’Unione Europea nel suo insieme ne riceve meno del 10 per cento, e ha diminuito la sua quota negli anni. Le retoriche dell’invasione, della guerra ai trafficanti, della lotta ai falsi rifugiati, hanno ottenuto molti più risultati di quanto si pensi, limitando l’adempimento degli obblighi umanitari.

Che cosa si potrebbe fare allora, a patto beninteso di volerlo? Una prima misura già esiste, ma viene applicata in modo insufficiente. Consiste nel reinsediamento (in tutto 88mila persone nel 2013, un decimo dei richiedenti, accolte soprattutto negli Stati Uniti): i richiedenti asilo, una volta protetti provvisoriamente dove è possibile, dovrebbero presentare domanda e in caso di risposta positiva essere accolti in quote proporzionali in paesi sicuri. In questo modo, si taglierebbero i profitti legati al trasporto e si eviterebbero le stragi del mare.

Il secondo cambiamento riguarda gli accordi di Dublino e l’elaborazione di una vera politica europea: libertà di movimento per i rifugiati riconosciuti, costi a carico del bilancio comunitario, misure di accoglienza e integrazione il più possibile omogenee.

In terzo luogo, va superata una logica emergenziale nella gestione dell’accoglienza. Vanno superati i grandi centri, come quello di Mineo (oltre 4mila posti), le accoglienze in luoghi isolati, l’affidamento a operatori improvvisati (piccoli albergatori per esempio), i continui cambiamenti. Un giovane rifugiato ha dichiarato di aver cambiato ventuno strutture da quando è arrivato in Italia. Serve un vero monitoraggio delle strutture e dei servizi, oggi è inadeguato. Servono soluzioni diverse, da quelle individuali (dare l’ammontare direttamente al rifugiato) all’accoglienza in famiglia, come ha proposto il giurista Ennio Codini dell’Università Cattolica a un dibattito organizzato dall’Ispi, (Istituto di politica internazionale). Tra la retorica della paura e quella dell’emergenza, lo spazio per soluzioni sensate non manca.

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