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Come uscirà l’economia svizzera dalla crisi del coronavirus?

Negozi chiusi
Negozi chiusi, voli cancellati, cantieri congelati, imprese a rilento: la pandemia sta facendo perdere 4-5 miliardi di franchi a settimana all'economia svizzera. Keystone / Alexandra Wey

La pandemia in corso farà sprofondare l’economia mondiale in una recessione, almeno nella prima parte dell’anno. Di quali strumenti dispone ora la Svizzera per minimizzare i danni economici e sociali di questa crisi? E quali fattori potrebbero compromettere le prospettive di un rilancio congiunturale?

10 miliardi di franchi per aiuti urgenti annunciati dal governo svizzero il 13 marzo, saliti a 40 miliardi il 20 marzo, per poi raggiungere 60 miliardi il 3 aprile. Con questo importo, tutt’altro che definitivo, il Consiglio federale intende attuare le misureCollegamento esterno volte ad arginare le conseguenze economiche e sociali della pandemia di coronavirus. Serviranno in particolare a fornire liquidità alle imprese, prevenire il più possibile licenziamenti e coprire le perdite di guadagno degli indipendenti.

È il più grande pacchetto di aiuti varato finora dal governo svizzero. I 60 miliardi previsti finora corrispondono quasi a quanto spende in un anno la Confederazione, 71 miliardi nel 2019, e all’8,5% del Prodotto interno lordo (PIL), pari a 700 miliardi. Ma probabilmente non basteranno a far fronte ai contraccolpi economici provocati dalla pandemia. Secondo varie stime, l’economia svizzera sta perdendo 4 – 5 miliardi di franchi a settimana, perdite che rischiano di ingrossarsi notevolmente se la situazione attuale dovesse perdurare e portare alla chiusura di molte aziende.

La Svizzera ha superato meglio di molti altri paesi europei la crisi del 2008, benché avesse colpito direttamente uno dei pilastri della sua economia, il settore bancario. E dispone di almeno tre punti forti per affrontare questa sfida di dimensioni storiche, ma anche di altrettanti punti deboli. Vediamo quali.

I membri del G20, che forniscono l’85% della produzione economica globale, hanno dichiarato di voler stanziare 5’000 miliardi di dollari per minimizzare i danni economici e sociali della pandemia, rilanciare la crescita e mantenere la stabilità dei mercati. Diversi altri governi intendono iniettare enormi quantità di denaro nelle loro economie. Contributi fondamentali per fronteggiare l’emergenza attuale, ma che appesantiranno ulteriormente un debito pubblico sempre più insostenibile per molti paesi.

Secondo i dati dell’OCSE, nel 2018 il fardello dell’indebitamento gravava già oltre misura su Giappone (240% del PIL), Italia (147%), Stati uniti (136%), Francia (122%), (Gran Bretagna 117%) e Spagna (115%), tanto per citare solo alcuni paesi. In Svizzera il debito pubblico (Confederazione, Cantoni e Comuni) corrisponde appena al 27% del PIL.

Questa quota così bassa è legata in particolare al “freno all’indebitamento”Collegamento esterno, un meccanismo introdotto dal 2003 dalla Confederazione per evitare squilibri finanziari strutturali e porre fine ai continui disavanzi accumulati dagli anni ’90. Dal 2006 in conti statali hanno registrato quasi sistematicamente delle eccedenze, impiegate per alleggerire il debito. Il freno all’indebitamento, adottato anche dai Cantoni, consente oggi alla Svizzera di disporre di un buon margine di manovra finanziario per alleviare le ripercussioni dell’inevitabile recessione economica.

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Un altro strumento importante per lenire le conseguenze economiche e sociali della pandemia è costituito dalle indennità per lavoro ridottoCollegamento esterno, istituite per far fronte a cali temporanei delle attività delle imprese e salvaguardare i posti di lavoro. Nei periodi di crisi, invece di procedere a licenziamenti, le aziende possono ridurre l’orario di lavoro per un certo periodo di tempo e far ricorso a queste indennità per coprire una parte dei salari.

Grazie a questo strumento, i datori di lavoro mantengono nelle loro imprese un personale già formato, in grado di riprendere rapidamente le attività. Da parte loro, i dipendenti non finiscono in disoccupazione e mantengono intatta la loro protezione sociale. Negli Stati uniti, a titolo di paragone, ben 10 milioni di lavoratori si sono ritrovati disoccupati nel giro delle ultime tre settimane.

Le indennità per lavoro ridotto sono già state versate a migliaia di imprese nelle ultime crisi. Ma mai a livelli paragonabili a quelli attuali. Da metà marzo sono state richieste prestazioni per circa 1,3 milioni di dipendenti, ossia un quarto della manodopera attiva in Svizzera.

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La Banca centrale europea ha svolto, sotto Mario Draghi, un ruolo determinante per stabilizzare la situazione economica della zona euro dopo la crisi internazionale del 2008. Ma le vertenze in corso attualmente sull’emissione o meno di Eurobonds dimostrano ancora una volta le aspettative contrastanti degli Stati europei. La Banca nazionale svizzera (BNS)Collegamento esterno può invece attuare una politica monetaria adeguata ai bisogni specifici di una singola economia.

Se la crisi del coronavirus dovesse prosciugare le risorse della Confederazione, la BNS potrebbe intervenire a sua volta con ingenti iniezioni di denaro. L’idea di interventi di questo tipo da parte dell’istituto di emissione ha sempre fatto inorridire partiti ed economisti più liberali. Ma, di fatto, è stata soprattutto la BNS a salvare la maggiore banca svizzera (UBS) nel 2008. Le pressioni sulla banca centrale, che ha registrato l’anno scorso un utile di 50 miliardi di franchi, diventerebbero alquanto forti in caso di importanti scompensi sociali.

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Dove vanno i miliardi della Banca nazionale?

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La Svizzera non dispone di un grande mercato interno, paragonabile ad esempio a paesi come la Germania o il Giappone, e guadagna circa un franco su due all’estero. Oltre due terzi delle sue esportazioni vengono assorbite dall’UE e dagli Stati uniti. Se questi paesi dovessero slittare in una lunga e profonda recessione, neppure la Svizzera potrebbe uscirne a buon mercato, come è stato il caso dopo il cedimento dell’economia mondiale nel 2008.

La forza del franco simboleggia già da decenni la stabilità dell’economia svizzera e contribuisce ad attirare investimenti nelle imprese e capitali nelle banche. Ma, al più tardi dall’introduzione dell’euro, il franco forte è diventato anche uno dei punti deboli della Svizzera: ogni suo rafforzamento rispetto alla valuta europea indebolisce la competitività della industria di esportazione e del settore turistico. Nelle ultime due settimane, la BNS ha dovuto ancora una volta intervenire a più riprese per impedire un’altra impennata del franco, considerato un valore rifugio in tempi di crisi. Ma neppure questi interventi potrebbero bastare in caso di nuove turbolenze della zona euro.

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In seguito alla crisi del 2008, gli Stati uniti e i principali paesi europei sono stati costretti a finanziare ingenti misure di salvataggio delle banche e di rilancio congiunturale, che hanno lasciato dietro di sé una montagna di debiti. Per riportare denaro nelle casse statali, i governi di questi paesi hanno deciso di adottare una strategia comune per eliminare le scappatoie utilizzate da imprese e persone fisiche per sfuggire al fisco.

Sotto l’egida del G20, dell’OCSE e dell’UE, sono state così introdotte importanti riforme fiscali internazionali, che hanno portato allo scambio automatico d’informazioni sui conti bancari e a nuove regole sulla tassazione delle imprese transnazionali. La Svizzera, completamente isolata, figura tra i paesi che hanno fatto maggiormente le spese dei nuovi standard internazionali.

Uno scenario che rischia di ripetersi con questa nuova crisi. Il governo svizzero, ad esempio, avrà ben poca voce in capitolo per difendere i propri interessi nei negoziati in corso presso il G20 e l’OCSE per giungere ad un nuovo sistema internazionale di tassazione delle società. Dovrebbe consentire ai paesi con un grande mercato di ottenere una fetta molto più consistente delle imposte pagate dai giganti del web e dalle altre imprese transnazionali. La Confederazione, secondo le prime stime, rischia di perdere 5 miliardi di introiti fiscali all’anno.   

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