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Quo vadis esercito svizzero?

Una pausa… di riflessione Keystone

La politica si interroga sul futuro delle forze armate. Al paese serve un esercito potente e con effettivi numerosi oppure una piccola formazione, altamente specializzata e in grado di operare – per determinati impieghi – anche all'estero?

Nella primavera del 2009 il ministro della difesa Ueli Maurer aveva espresso un ambizioso obiettivo: far diventare l’esercito svizzero «il migliore del mondo». La via per raggiungere tale traguardo si sta però rivelando irta di ostacoli.

A titolo di esempio, la decisione concernente l’acquisto di nuovi aviogetti da combattimento è stata rinviata oltre il 2015, anche se l’esercito ritiene che in assenza di apparecchi più moderni la sovranità sullo spazio aereo non è garantita.

Inoltre il rapporto sull’esercito 2010 – pubblicato nel mese di ottobre – dovrà essere migliorato, poiché la commissione parlamentare responsabile ritiene che nel testo non vi è un’adeguata definizione delle priorità per quanto concerne le possibili minacce future.

Bruno Frick – presidente della Commissione per la politica di sicurezza del Consiglio degli Stati – ha criticato il fatto che il documento non si esprime in merito a una questione importante: la Svizzera deve partecipare attivamente alla definizione della politica di sicurezza europea oppure deve limitarsi a prenderne atto? A suo parere nel rapporto la neutralità viene evocata come un mantra, senza però approfondire il concetto.

Situazione di stallo

Ueli Maurer è ora chiamato a occuparsi di questioni cruciali per il futuro dell’esercito, segnatamente il numero di soldati, la tipologia degli impieghi e la sua collocazione nel contesto internazionale. Secondo Kurt Spillmann, professore esperto di politica di sicurezza ed ex direttore dell’Accademia militare di Zurigo, la Svizzera si trova infatti da anni «in una situazione di stallo, in bilico tra due concezioni diverse».

«Una implica la partecipazione alla Politica europea di sicurezza e di difesa (PESD) oppure una collaborazione con la Nato; l’altra presuppone la creazione di una capacità di difesa completamente autonoma, che viene costantemente discussa ma avrebbe costi perlomeno doppi rispetto all’esercito attuale», aggiunge.

Spillmann ritiene che – in generale – il mondo politico non ha ancora tratto le necessarie conclusioni a livello di strategia militare risultanti dalla fine della guerra fredda, portando avanti una politica di tipo tradizionale.

Difficile decidere

Il futuro incerto dell’esercito ha ripercussioni anche sul programma d’armamento 2010, che prevede tra l’altro il parziale rinnovamento del parco veicoli: «Non è possibile elaborare un programma d’armamento adeguato dal momento che non conosciamo la reale situazione dal profilo della minaccia», ha affermato la deputata Corina Eichenberger-Walther. Le ha fatto eco Ursula Haller, secondo la quale «manca un orientamento preciso».

Risultato: il Consiglio degli Stati (Camera dei Cantoni) – diversamente dal Nazionale (Camera del popolo) – desidera migliorare i simulatori di volo, mentre non ritiene prioritario l’acquisto di nuovi veicoli. Anche se i costi delle due varianti differiscono unicamente di 64 milioni di franchi, i lunghi dibattiti parlamentari non hanno ancora permesso di trovare una soluzione.

Partiti diversi

Gli orientamenti politici influenzano a loro volta le posizioni relative al futuro delle forze armate. I partiti borghesi sono tendenzialmente favorevoli a un esercito più piccolo e in grado di operare anche all’estero.

Questi ultimi e gli ufficiali d’alto rango chiedono che all’esercito sia garantito un budget adeguato. In quest’ottica, il gruppo Giardino intende lanciare un’iniziativa popolare per destinare alla difesa nazionale una percentuale fissa del prodotto interno lordo.

La destra conservatrice – dal canto suo – ne critica l’indebolimento e l’internazionalizzazione, auspicando un rafforzamento del sistema di milizia. In un documento programmatico, l’Unione democratica di centro caldeggia infatti «la rinuncia alla cooperazione internazionale con la Nato e l’Unione europea sviluppatasi negli ultimi 15 anni» a favore di «una politica di difesa nazionale credibile, capace di garantire la sovranità e la neutralità della Svizzera».

Socialisti, ecologisti e pacifisti sono favorevoli all’abolizione pura e semplice dell’esercito.

Il nemico mancante

«La convinzione della maggioranza è sostanzialmente ancora quella della guerra fredda, per non dire della seconda guerra mondiale. Lo spirito del ridotto nazionale [dispositivo difensivo dell’esercito dal luglio del 1940 all’autunno del 1944, quando, di fronte all’accerchiamento della Svizzera da parte delle potenze dell’Asse, la Confederazione si concentrò sul presidio militare dello spazio alpino] è ancora ben presente», spiega Spillmann.

«In realtà non esiste un nemico, e di questo dovremmo finalmente tenere conto. Il governo ne è cosciente e lo ha già ribadito, ma il parlamento non è ancora pronto a trarne le conseguenze politiche».

Durante la Guerra fredda le forze armate assorbivano addirittura un terzo del budget federale. Con ben 700’000 mila soldati in attività, oltre il 10% della popolazione, la piccola e neutrale Svizzera contava uno degli eserciti più grandi di tutto il continente europeo.

Il 26 novembre 1989, pochi giorni dopo il crollo del muro di Berlino, un’iniziativa favorevole alla soppressione dell’esercito veniva approvata da un terzo degli svizzeri. Uno shock per la classe dirigente, che ha rimesso fondamentalmente in discussione la politica di difesa nazionale, aprendo un cantiere diventato da allora interminabile.

Il primo grande progetto di riforma, Esercito 95, ha portato nella seconda metà degli anni ’90 ad una riduzione degli effettivi a 400’000 unità.

Con la riforma Esercito XXI, entrata in vigore dal 2004, il loro numero è sceso a 120’000 soldati attivi e 80’000 riservisti, mentre il budget è diventato ormai inferiore ad un decimo delle spese statali.

Attualmente la Confederazione spende circa 4,1 miliardi di franchi per la politica di sicurezza nazionale, di cui 3,7 miliardi per l’equipaggiamento e l’infrastruttura dell’esercito. Secondo il ministro della difesa Ueli Maurer, le forze armate dovrebbero disporre di 500 a 700 milioni di franchi in più per assolvere il loro mandato.

La neutralità permanente è un principio della politica estera elvetica: essa assicura l’indipendenza della Confederazione e l’inviolabilità del suo territorio. Quale contropartita, la Svizzera s’impegna a non partecipare alle guerre tra altri Stati.

Un impegno militare in operazioni di pace, autorizzate dall’ONU o dalle parti in conflitto, è compatibile con la neutralità. Per contro la Svizzera non può far parte di un’alleanza di tipo militare, come ad esempio l’Alleanza atlantica (Nato).

Inizialmente, la neutralità ha rappresentato una sorta di soluzione di ripiego: nell’era dei conflitti confessionali, raggiungere l’unanimità in materia di politica estera non sarebbe infatti stato comunque possibile.

Tuttavia, nel corso della storia essa ha prodotto evidenti effetti benefici e si è perciò radicata profondamente nella coscienza del popolo svizzero. Nel Patto federale del 1815 e nelle Costituzioni federali del 1848, del 1874 e del 1999 la neutralità è poi diventata, per le autorità, una vera e propria norma in materia di politica estera.

traduzione e adattamento: Andrea Clementi

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