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Quirinale, quel palazzo molto ambito ma poco amato

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di Aldo Sofia

“E’ un po’ come una prigione, da cui si esce poco”, sussurra Giorgio Napolitano a una bambina che, poche ore prima del commiato, gli chiede se sia contento di lasciare il Quirinale e di far ritorno a casa. In realtà, anche molti dei suoi dieci predecessori lasciarono quel Palazzo con un forte senso di sollievo, a volte come una liberazione.

Si sa del resto che il maestoso edificio che domina il colle più alto della Città eterna (ex dimora di 30 papi, a partire da Gregorio XIII ) per i romani è circondato da una fama, se non proprio sinistra, quantomeno inquietante. Sarà per la maledizione che, dopo la breccia di Porta Pia e la fine del Regno pontificio, lanciò Pio IX: “Anatema sugli scassinatori del Quirinale”. In seguito, fu sede di monarchi sfortunati, mentre diversi Capi di Stato non gli riservarono certo un grande affetto, e anzi lo lasciarono senza preoccuparsi di lasciare frasi storiche.

Vittorio Emanuele II se ne teneva a debita distanza, e infatti si stabilì in un padiglione poco distante. Piaceva forse a re Umberto I, che però sarà presto assassinato a Monza. Andò meglio ai suoi due successori, costretti comunque alle dimissioni (Vittorio Emanuele III) e all’esilio (Umberto II).

Ma nemmeno i presidenti repubblicani fecero tutti carte false per dimorarvi. De Nicola, primo e provvisorio capo di Stato, gli preferì sempre Palazzo Giustiniani; si dice che Einaudi chiese inutilmente che si decidesse di cambiare la sede ufficiale della presidenza; Gronchi risiederà sempre nel quartiere Nomentano; Sandro Pertini scendeva quasi tutte le sere, spesso a piedi, nella sua casa alla vicina Fontana di Trevi. Dice la vulgata che soltanto Segni e Leone fossero affezionati alla vita negli storici saloni del Quirinale, ma si sa come andò a finire la loro “via crucis” (dimissionario il primo a causa di una malattia a cui forse non fu estranea l’ombra di aver avallato il progetto di un ‘colpo di stato bianco’, e dimissionario il secondo a causa dello scandalo Lokheed, del quale fu poi totalmente scagionato).

Più vicini a noi. Francesco Cossiga: il picconatore, il presidente “che parla come un matto e si toglie qualche sassolino dalle scarpe” (autodefinizione), il capo dello Stato sfiorato dall’impeachment, che al momento dell’addio lancia uno strale profetico ai suoi ex colleghi (“mi chiedo se questa classe politica non debba essere inchiodata alle sue responsabilità”) e che lascia il Quirinale “come un uomo solo che quindi non può considerarsi un uomo forte”. Oscar Luigi Scalfaro: aveva promesso di essere un presidente “notarile”, fu invece interventista fino allo scontro pubblico con Berlusconi, e del Palazzo diceva “lì dentro ho vissuto una spaventosa traversata”. E persino Carlo Azeglio Ciampi: pubblicamente irreprensibile, ma che agli intimi che lo aiutavano a fare le valigie confessò che “il Colle è un posto pericolosissimo, basta un niente per sbagliare e perdere la faccia”.

Fino alla “prigione” evocata da Napolitano, l’unico presidente rieletto nella storia della Repubblica. E ora definitivamente a casa. Nel quartiere Monti, in “Via dei serpenti”: tanto per rimanere… in tema, visto il veleno che al momento del congedo gli riservano non pochi di coloro che due anni fa gli chiesero di salvare la Patria.

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