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La via più rapida, ed economica, per la neutralità climatica dell’aviazione

Aeroplano atterra, montagne sullo sfondo
Sul lungo termine, forse voleremo su aeroplani elettrici o a idrogeno. Ma contro il riscaldamento climatico è necessario agire subito. © Keystone / Christian Merz

La neutralità climatica nel settore dell’aviazione è già tecnicamente possibile, anche continuando a utilizzare combustibili fossili. Secondo uno studio di un gruppo di ricerca del Politecnico di Zurigo, diretto dal professore italiano Marco Mazzotti, il modo più efficiente di raggiungere questo risultato passa dalla cattura e dallo stoccaggio del CO2.

Nell’ottica di ottenere la neutralità climatica, obiettivo che la Svizzera intende raggiungere entro il 2050Collegamento esterno, anche l’aviazione dovrà fare la sua parte. Le soluzioni che le compagnie aeree potrebbero adottare per azzerare il loro impatto climatico sono molte.

L’aviazione non è la principale responsabile delle emissioni globali gas a effetto serra. Si tratta unicamente del 2,5 – 3% del totale. Un impatto senza dubbio maggiore ce l’hanno agricoltura e produzione di elettricità. Ma questi due settori sono anche utili a miliardi di persone.

Volare è invece appannaggio di pochi, soprattutto dei viaggiatori dei Paesi più ricchi. E, tra i passeggeri, l’1% rappresentato dai “frequent flyer” è responsabile del 50% delle emissioni di tutta l’aviazione.

Fonte: National GeographicCollegamento esterno

Una possibilità è sostituire gli attuali aerei a combustibile liquido con velivoli elettrici o a idrogeno. Quest’ultima sembra essere una rotta seriamente considerata ad esempio da Airbus con il suo progetto miliardario ZEROe.

Tuttavia, per arrivare davvero a emissioni nulle, l’idrogeno utilizzato dovrebbe essere idrogeno “verde” o “blu”, prodotto quindi grazie a fonti di energia che non immettano a loro volta nell’atmosfera dei gas a effetto serra.

In questo modo ci si potrebbe lasciare alle spalle i combustibili fossili.

“Se ci arriveremo, benissimo! Ma questa è una prospettiva a lungo termine e abbiamo bisogno di ridurre l’impatto climatico dell’aviazione già adesso”, ci spiega l’italiano Marco Mazzotti, professore di ingegneria dei processi al Politecnico federale di Zurigo (ETH).

Il gruppo di lavoro da lui diretto ha recentemente pubblicato uno studioCollegamento esterno che si concentra sulle soluzioni di più facile implementazione a corto e medio termine, tenendo anche in conto la prospettiva dei costi.

Queste soluzioni prevedono l’utilizzo dei cosiddetti drop-in fuels, ovvero combustibili che possono essere messi nei serbatoi degli aerei senza che debbano essere apportate modifiche ai velivoli. Si tratta dei tradizionali combustibili fossili, come il kerosene, oppure di combustibili sintetici, prodotti a partire dall’anidride carbonica.

Stoccare o utilizzare?

Continuando ad operare con gli attuali sistemi di propulsione, un’aviazione ad emissioni zero sarebbe possibile qualora si togliesse dall’atmosfera la stessa quantità di gas a effetto serra che fuoriesce dagli aeroplani. Il procedimento, la cattura del CO2, è già tecnicamente fattibile.

Si tratta di estrarre l’anidride carbonica dall’aria mediante procedimenti chimico-fisici, per poi immagazzinarla in modo permanente nel sottosuolo, in strati geologici adatti molto profondi. Si parla in questo caso di CCS (Carbon Capture and Storage). Oppure si può riutilizzare il CO2 per sintetizzare nuovamente del combustibile, un’operazione denominata CCU (Carbon Capture and Utilisation).

I principali metodi di “cattura” sono due: la CO2 può essere estratta dall’atmosfera in qualunque parte del mondo con la Direct Air Capture (DAC) oppure, in alternativa, si lascia fare questo lavoro di estrazione alle piante (fotosintesi) e ci si limita a raccogliere la CO2 quando la biomassa viene smaltita, ad esempio, in un inceneritore. Questo metodo è la PSC (Point Source Capture).

Il Laboratorio federale per la ricerca sui materiali (Empa) ha determinato che in Svizzera circa la metà dei materiali bruciati negli inceneritori è di origine vegetale.

Il team di Mazzotti ha preso in considerazione le possibili combinazioni tra CCS, CCU, PSC e DAC per capire quale risulta essere la più efficiente sia da un punto di vista energetico che economico. L’analisi ha tenuto conto di diversi aspetti, tra cui la possibile evoluzione fino al 2050 dei costi di tali tecnologie. Costi che naturalmente si tradurrebbero in un aumento del prezzo dei biglietti aerei.

“Per riassumere una storia un po’ lunga in una frase: la CCU ha un costo almeno tre volte superiore a quello della CCS”, dice il professore.

Produrre combustibile sintetico richiede infatti una grande quantità di energia, che deve provenire da fonti “carbon free”. Non avrebbe altrimenti senso da un punto di vista climatico. E questo si ripercuote anche sui costi.

“I combustibili sintetici sono presentati da molti come la soluzione del problema, ma non si può dire che sia anche una soluzione economica. L’unica ad esserlo passa dalla CCS”, aggiunge.

Cartina strategie energetiche svizzere
La CCS è parte integrante della strategia energetica della Confederazione. Ufficio federale dell’energia UFE

Dove catturare il CO2?

Il costo dell’immagazzinamento dell’anidride carbonica dipende da dove il gas è catturato. La Direct Air Capture (DAC) risulta più cara, ma ha il vantaggio di poter essere effettuata ovunque. L’impianto di cattura del CO2 potrebbe essere costruito direttamente nei pressi di un sito di stoccaggio. Nel 2017, la start-up svizzera Climeworks ha messo in funzione il primo impianto industriale DAC del mondo.

La Point Source Capture (PSC) è più semplice e più economica, in quanto si si parte da un gas (ad esempio i fumi di un inceneritore) in cui l’anidride carbonica è più concentrata. Il rovescio della medaglia è che la CO2 così ottenuta deve essere trasportata fino al sito di stoccaggio. È un aspetto, quello di una creazione di una rete di raccolta e distribuzione del CO2 “catturato”, che il gruppo di lavoro del professor Mazzotti sta attualmente studiando intensamente nell’ambito di progetti sia svizzeri che europei.

Inoltre, strutture come gli inceneritori o gli impianti di biogas dove la PSC è possibile “ce ne sono, ma non moltissime”, precisa Mazzotti. “Quelle esistenti dovrebbero comunque essere utilizzate”.

GRAFICO AUMENTO COSTI ABBATTIMENTO
Evoluzione dei costi di abbattimento del carbonio a seconda delle tecnologie utilizzate fino al 2050. La fascia rossa BAU (“Business As Usual) rappresenta uno scenario nel quale non vengono fatti cambiamenti rispetto alla situazione attuale, ma viene applicata una tassa sul CO2 emesso. Per mettere in prospettiva questo grafico, lo studio prende in considerazione un ipotetico volo Zurigo-Boston dal costo di 500 euro. Utilizzando la via CCS-PSC si stima che nel 2050 questo stesso volo potrebbe costare 520 euro, il 4% in più. Percentuale che salirebbe del 13% con la CCS-DAC, del 67% per la CCU-PSC, dell’85% per la CCU-DAC e infine, se si andasse avanti senza intervenire, del 104%, ovvero 1’020 euro. ETH

Cauto ottimismo

Oltre ad indicare una la via più efficiente da percorrere, lo studio sottolinea che un’economia neutrale dal punto di vista climatico sarebbe già possibile. Ma, “come si dice in questi casi: tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”, ci risponde Mazzotti quando gli chiediamo se ritiene che un’aviazione a emissioni zero possa diventare presto realtà.

“Che io sia ottimista o meno è irrilevante. È difficile, ma dobbiamo farlo”, aggiunge. “Una nota positiva la vedo lavorando quotidianamente con i giovani. La loro volontà di mettersi in gioco e trovare soluzioni per risolvere il problema del cambiamento climatico e del riscaldamento globale è straordinaria”. A dimostrarlo è anche il fatto che al Politecnico di Zurigo la richiesta di progetti di tesi di laurea sul tema della CCS sta per arrivare a superare l’offerta. “Ricordiamoci però che la CCS è solo un elemento tra le molte altre cose che bisogna fare per preservare il clima”, conclude.

E questo CO2 dove lo mettiamo?

Ci sono principalmente due tipi di strutture geologiche nelle quali è possibile immagazzinare il CO2. Le prime sono gli acquiferi salini. Sono strutture porose molto profonde che contengono acqua satura di minerali, al di sopra delle quali si trova uno o più strati di roccia impermeabile. Qui si può iniettare il CO2 che va a sostituire l’acqua nei pori. Nel tempo si scioglie oppure reagisce con i minerali e forma carbonati, fissandosi in modo permanente.

Gli altri sono i giacimenti dismessi di petrolio e di gas, anch’esse strutture porose sigillate che hanno conservato petrolio o gas per milioni di anni, e che potrebbero fare lo stesso con il CO2, spiega Mazzotti.

Lo stoccaggio definitivo del CO2 è teoricamente possibile anche in Svizzera.  Nel quadro di un progetto europeo, ricercatori dell’Università di Ginevra stanno tentando di individuare le aree potenzialmente adatte a un immagazzinamento nel sottosuolo.

Lo stoccaggio dell’anidride carbonica è un processo che si effettua e si studia da oltre 25 anni (in Norvegia, Islanda e Canada, ad esempio). Da un punto di vista ambientale “è sicuramente più sicuro che rilasciare il CO2 nell’atmosfera, dove provoca il riscaldamento globale”, sottolinea il professore.

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