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Quando le arance fanno venire il mal di stomaco

Arance rosso sangue: i fatti di Rosarno hanno suscitato un coro di critiche in tutta Europa (nella foto una manifestazione a Roma) Keystone

Dieci anni dopo i disordini di El Ejido, in Andalusia, i fatti di Rosarno hanno riportato sotto la luce dei riflettori il dramma vissuto da migliaia di immigrati impiegati nell'agricoltura. Ma cosa può fare un consumatore per non rendersi complice di questo moderno schiavismo?

Uva o melone, ma ognuno alla sua stagione. Un proverbio che ormai ha fatto il suo tempo, a giudicare dalla profusione di frutta e verdura fresca proveniente dai quattro angoli del pianeta presentata durante tutto l’anno sugli scaffali dei nostri supermercati.

L’economia globalizzata ci ha ormai abituati a questo lusso, se di lusso si può parlare, visti i prezzi irrisori di certi prodotti agricoli, anche quando provengono dall’altro emisfero.

A volte, però, il bel pomodorino rosso fuoco di Almeria o le succose arance calabresi possono andare di traverso. Come nel febbraio del 2000, quando le immagini degli operai agricoli maghrebini presi a bastonate dalla popolazione di El Ejido fecero il giro del mondo. Oppure qualche giorno fa, quando la rivolta scoppiata a Rosarno, in Calabria, ha messo davanti agli occhi di tutti le condizioni subumane nelle quali vivono migliaia e migliaia di immigrati, pagati 20 euro al giorno per raccogliere agrumi.

E sugli scaffali svizzeri?

In Svizzera, le due principali catene di distribuzione – Migros e Coop – assicurano che sui loro scaffali non vi è spazio per frutta e verdura raccolta da quelli che alcuni hanno definito i forzati dell’agricoltura.

«Per garantire la qualità in un’economia sempre più globalizzata, Migros punta sull’adozione di standard a tutti i livelli della filiera: a partire dalla produzione primaria in agricoltura, passando per la lavorazione, per giungere sino al prodotto finito in negozio pronto per la vendita. I clienti possono dunque contare su un’ampia offerta di merci prodotte nel rispetto di esseri umani, animali e natura», si legge ad esempio sul sito internet del più grande distributore svizzero.

Altre società sono per contro meno categoriche. Interpellate dalla trasmissione della Radio della Svizzera romanda “On en parle”, la Denner ha ad esempio riconosciuto che i suoi fornitori non devono per forza provare di rispettare delle condizioni di lavoro dignitose, mentre il grossista Aligro ha indicato di contare sulla loro buona fede.

GlobalGap e BSCI

Migros e Coop mettono in risalto il fatto che praticamente tutti i loro fornitori hanno aderito agli standard GlobalGap e Business Social Compliance Initiative (BSCI).

Il primo rappresenta lo standard principale nel mondo del settore agricolo e tiene conto soprattutto di aspetti legati alla tecnica di produzione. Il secondo è invece un codice di condotta che obbliga in teoria chi lo firma a garantire condizioni di lavoro sociali.

Questi standard non convincono però tutti: «Nutriamo grandi riserve nei confronti di questi sistemi privati, che da un lato tendono a tagliare l’erba sotto ai piedi delle regolamentazioni internazionali, come quelle dell’Organizzazione internazionale del lavoro, e dall’altro stanno diventando dei mercati molto redditizi per chi si occupa della certificazione», sottolinea il sindacalista Philippe Sauvain, segretario della Piattaforma per un’agricoltura sostenibile.

«Un certificato come il BSCI – continua Sauvain – contempla prescrizioni che non sono rispettate neppure da noi. La durata del lavoro, ad esempio, non dovrebbe superare 40-45 ore e in Svizzera non è assolutamente il caso. Ciò dimostra il carattere aleatorio di questi standard».

«Questi organismi si basano su controlli che sono più o meno volontari, servono solo a travestire la realtà. L’esperienza a El Ejido lo dimostra. Dopo i disordini del 2000, i grandi distributori hanno creato questi standard, ma sul terreno non è praticamente cambiato nulla. Chi si fornisce in questa regione non deve nascondersi dietro al paravento degli standard come GlobalGap o BSCI oppure dire ‘siamo solo uno tra mille acquirenti e da soli non possiamo cambiare nulla’», rincara Valentina Hemmeler-Maïga, segretaria generale del sindacato agricolo Uniterre.

Tracciabilità difficile

Comunque, anche dando prova di buona volontà un acquirente può essere tratto in inganno. «In strutture come quelle esistenti nell’Italia meridionale o in Andalusia è spesso difficile avere una tracciabilità del prodotto, poiché i venditori sono cooperative o grossisti che raccolgono la produzione, che spesso viene mischiata, di un gran numero di agricoltori», osserva Aline Clerc, specialista di agricoltura in seno alla Federazione romanda dei consumatori.

Per il consumatore è praticamente impossibile fare una scelta con cognizione di causa, poiché sull’imballaggio figura unicamente il paese di provenienza. «Attualmente siamo confrontati al caso degli agrumi calabresi. Ciò vuol dire che il problema concerne tutta l’Italia? E chi può garantire che in Spagna la situazione sia migliore? Il consumatore non ha nessun punto di riferimento», sottolinea Aline Clerc.

Max Havelaar per l’Europa?

La rappresentante della Federazione romanda dei consumatori non direbbe di no all’introduzione di un marchio per il commercio equo come Max Havelaar per i prodotti europei. «Potrebbe essere un passo nella buona direzione. D’altro canto sarebbe però qualcosa di estremamente grave, poiché vorrebbe dire che l’Europa ha fallito, non essendo riuscita ad instaurare un quadro che garantisce condizioni di lavoro decenti».

Philippe Sauvain osserva dal canto suo che con il moltiplicarsi di marchi il consumatore rischia di perdere l’orientamento. «Tuttavia se dietro a un simile ‘label’ vi fossero dei veri controlli, perché no…».

«Il consiglio che posso dare ai consumatori è di interpellare regolarmente i gerenti dei negozi, chiedendo loro da dove proviene la frutta o la verdura, come è stata prodotta…», aggiunge Valentina Hemmeler-Maïga.

Secondo la segretaria del sindacato Uniterre, per trovare una vera soluzione è però necessario prima di tutto un cambiamento completo di paradigma: «Fino a quando si vorrà avere un’agricoltura ultracompetitiva, bisognerà per forza continuare ad abbassare i costi e il costo che più facilmente si può ridurre è quello dell’essere umano».

Daniele Mariani, swissinfo.ch

La Business Social Compliance Initiative è un’associazione nata nel 2003 con sede a Bruxelles, il cui obiettivo è di instaurare uno standard per in materia di condizioni di lavoro.

Le aziende che sottoscrivono il codice di comportamento BSCI si impegnano in particolare a vietare il lavoro forzato e quello infantile, a proporre dei contratti di lavoro equi e dei salari decorosi.

Dalla sua creazione, la BSCI ha effettuato più di 6’000 audit, in particolare in Cina (62%). In sette casi su 10, le aziende non adempivano ai criteri previsti dal codice di comportamento.

Lo standard EurepGap è nato nel 1997 su iniziativa dei membri del gruppo di distributori europei Eurep (Euro Retailer Produce Working Group), di cui fanno parte, tra gli altri, Migros, Coop, Aldi e Lidl. Nel 2007 il nome è stato modificato in GlobalGap.

Questo certificato definisce le buone pratiche agricole, in particolare per quanto concerne gli aspetti ambientali, la salute e la sicurezza dei lavoratori, nonché degli animali.

La certificazione è effettuata in oltre ottanta paesi. Nel 2007 circa 81’000 produttori possedevano questo certificato.

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