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Quale giustizia per i palestinesi?

Il governo svizzero sta preparando un'iniziativa diplomatica per chiedere il rispetto del diritto umanitario nei Territori palestinesi Keystone

La situazione in Palestina precipita. La diplomazia internazionale brancola nel buio. Fra i primi paesi, la Svizzera denuncia le violenze. Incontro con l'esperto Riccardo Bocco.

Il politologo Riccardo Bocco, vicedirettore dell’Istituto universitario di studi sullo sviluppo dell’Università di Ginevra, conosce a fondo la situazione dei Territori occupati. Dai primi anni novanta, segue da vicino la situazione dei profughi in Medio Oriente.

Su incarico della Direzione dello sviluppo e della cooperazione svizzera, segue periodicamente i progetti umanitari in corso. Nell’intervista, concessa a swissinfo, si sofferma su alcuni punti centrali del conflitto e sulle sfide diplomatiche che aspettano soluzione.

Quali sono i nodi da sciogliere che hanno portato a questa recrudescenza della violenza in Medio Oriente?

Con la reazione violenta, Israele si trova in una situazione di insicurezza mai vissuta prima nella sua storia, eppure manca ancora una ridefinizione della prospettiva. Non bisogna solo chiedersi quali sono gli effetti degli attentati suicidi dei militanti palestinesi. La prima domanda dovrebbe essere: quali sono le cause che portano i giovani palestinesi a sacrificarsi? E ancora, perché il fenomeno dei “suicide bombers” è nato solo dopo l’inizio del processo di pace?

Inoltre, con la questione territoriale, rimane irrisolto il rapporto di dipendenza economica dei palestinesi da Israele. In tre giorni, tra il 29 di settembre e il due di ottobre dello scorso anno, 125 mila palestinesi che lavoravano in Israele hanno perso il loro lavoro, quasi un quarto della forza lavoro palestinese. Lo stato palestinese non ha l’autonomia necessaria per sopravvivere: l’acqua e l’energia elettrica, le strade e i trasporti, come la disponibilità di lavoro e l’accesso agli sbocchi commerciali sono controllati da Israele. Nei sette anni del cosiddetto processo di pace, poco è cambiato in questa situazione di dipendenza.

Con questo non voglio dire che i palestinesi siano dei santi. Conosciamo il sistema di corruzione dell’OLP e le ingiustizie che sono successe. Ma il prezzo che i palestinesi devono pagare è molto alto. Basta pensare che gli accordi di Oslo non prevedono il ritorno nel paese d’origine; su sette milioni di palestinesi, circa cinque milioni sono considerati profughi (di cui quasi quattro sono registrati presso l’UNRWA), basti questa cifra per farsi un’idea delle difficoltà cui sono confrontate le autorità dei Territori.

È cronaca delle ultime settimane: nei Territori vengono colpiti anche dei progetti di sviluppo internazionali che non possono essere ritenuti strategici dal punto di vista militare. Quali scopi persegue questa politica della terra bruciata?

Attraverso una serie di rapporti periodici stiamo seguendo attentamente il lavoro di aiuto umanitario nei Territori occupati. Una parte del lavoro è dedicata alla distruzione da parte israeliana delle infrastrutture palestinesi. Il perché di tutto questo? Sharon è stato molto chiaro alla sua presa del potere nel febbraio del 2001, lui non ha infatti parlato di pace.

Il governo israeliano persegue tre scopi dichiarati: una situazione definita “di non guerra”, la sicurezza dei cittadini israeliani e la limitazione territoriale rispetto agli accordi internazionali. Questo vuol dire escludere dalle trattative gli insediamenti, il rientro dei profughi e inoltre Gerusalemme è da ritenersi israeliana.

Per Sharon, il 43 per cento dei territori autonomi è già molto e non intende fare altre concessioni. Una posizione che contraddice gli esiti diplomatici degli anni novanta. Con Sharon si è dunque ritornati indietro di dieci anni alla posizione del suo predecessore conservatore Shamir.

Solo negli ultimi giorni la diplomazia internazionale sembra reagire ad una situazione che, anche grazie ai media, è sotto gli occhi di tutti. Lo spettro del terrorismo islamico ha protetto fin ora l’azione israeliana?

L’etichetta di terrorista è volubile e dipende da chi è usata. Quando l’Inghilterra era la potenza mandataria in Palestina, i leader “terroristi” erano i futuri esponenti di primo piano dello stato d’Israele, come Begin o Shamir. I loro mezzi erano allora gli attentati all’albergo King David di Gerusalemme e il terrorizzare la popolazione civile palestinese. Loro si ritenevano dei partigiani, combattenti per la creazione del loro Stato. Adesso la prospettiva è cambiata.

Dall’inizio del processo di pace, il termine di terrorista per Arafat era caduto in disuso; gli accordi internazionali ne hanno legittimato la posizione. Ma dalla sua elezione a primo ministro israeliano, Sharon è stato il primo a riutilizzare il termine terrorista per il presidente dell’Autorità palestinese, mentre in precedenza il titolo era riservato ai movimenti integralisti. Addirittura, negli ultimi sei mesi, il primo ministro accusa l’autorità palestinese di essere la matrice di tutta una serie di attentati, chiaramente rivendicati da Hamas o dalla Jihad.

Soprattutto dopo l’11 settembre il messaggio è chiaro: demonizzare l’autorità palestinese come terrorista e fondamentalista per dimostrare che non c’è senso di negoziare.

L’acuirsi del conflitto avrebbe dovuto rendere attenta la comunità internazionale sulla gravità della situazione. Perché la diplomazia comincia a muoversi solo ora?

I primi attori nel contesto internazionale sono gli americani. Mai come in questa amministrazione, i repubblicani sono stati vicini a Israele.

Le lobby ebraiche e anche gli ambienti conservatori fondamentalisti cristiani si identificano nella lotta al terrorismo, sostenendo la linea dura del governo israeliano. Solo da poche settimane è nata la critica, ma non dalla politica: è la società civile a reagire.

Fra i primi, il Consigliere federale Joseph Deiss è intervenuto per condannare esplicitamente i massacri, ventilando anche delle sanzioni. Si tratta di un atto significativo che potrebbe fare breccia?

È un atto coraggioso, da parte di un piccolo paese come la Svizzera, soprattutto se si pensa alle vicende dei fondi in giacenza degli ultimi anni. La Svizzera non è il solo paese dove si potevano cercare questi scheletri del passato e non si tratta necessariamente del più importante. Ma, ad esempio, né la Francia né l’Inghilterra sono state toccate dalle organizzazioni ebraiche.

La posizione elvetica è una manifestazione di coerenza interna. La Svizzera è depositaria delle convenzioni di Ginevra e, aderendo all’ONU, ha ribadito questa volontà di rispetto dei diritti umani. Ma con il suo agire la Svizzera è ancora sola e forse troverà l’appoggio di alcuni paesi europei, arabi o del sud del mondo.

Nel campo mediorientale la Svizzera è però solo un nuovo attore. La sua presenza nel dibattito è iniziata essenzialmente nel 1994, con l’apertura dell’Ufficio di contatto per la cooperazione e lo sviluppo in Palestina. Un lavoro molto importante d’altronde che ha permesso anche lo sviluppo di progetti di studio internazionali sulle necessità della popolazione palestinese.

Si è ventilata anche la possibilità di un congelamento dell’acquisto di materiale militare da Israele, già previsto nel piano d’armamento federale. Questo gesto potrebbe compromettere un ruolo diplomatico attivo da parte elvetica?

Un suo ruolo nella mediazione sarà comunque difficile. Anche la Norvegia ha gestito la sua missione sotto lo stretto controllo americano. Troppo grande la concorrenza e troppo specifici gli interessi per aprire uno spazio alla missione elvetica su un campo che ha un gran numero di poste in gioco.

Nel Dopoguerra il sostegno occidentale ad Israele era praticamente incondizionato. Adesso si impone un difficile lavoro di mediazione che porti ad una soluzione duratura del conflitto. Una sfida difficile per la diplomazia internazionale…

In questi ultimi dieci anni, con la mondializzazione, non solo economica, la questione della giustizia diventa più che mai una questione di primaria importanza. Seguendo dei valori universalmente riconosciuti, l’ONU ha promosso i Tribunali internazionali dell’Aia sul conflitto dell’ex-Iugoslavia e sul Ruanda. E il rispetto dei principi – incarnati tra l’altro dalle Nazioni Unite stesse e dalle quattro convenzioni di Ginevra e il diritto umanitario duranti i conflitti armati – deve valere per tutti.

Inoltre, per pensare ad un vero processo di pace è necessario contemplare anche il passato. Sharon nega qualsiasi possibilità di riconoscere le responsabilità israeliane nella guerra del 1948, a seguito della quale sono stati distrutti 484 villaggi ed è stata buttata fuori la popolazione residente, radendo al suolo le case per cancellarne l’esistenza.

Non si tratta di rimettere in discussione la dolorosissima storia della Shoa, della diaspora ebrea e del nazismo. C’è infatti un essenziale accordo su questa verità storica. Ma è proprio in rispetto a questa memoria, anche quella del popolo palestinese, che è necessario reagire. Anche quando è uno stato come Israele a comportarsi in un certo modo su un territorio che occupa e che non riconosce come “occupato”, ma semplicemente come “conteso”. La situazione è chiara e gli israeliani hanno delle responsabilità da cui si aspetta una risposta.

Per questo è importante che l’occidente, come in questo caso il ministro degli esteri Joseph Deiss, riapra la discussione sui principi fondamentali della nostra civiltà, cercando una coerenza che permetta un ritorno alla pace.

Intervista raccolta da Daniele Papacella

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