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Coronavirus, responsabilità e fragilità

Redazione Swissinfo

La crisi multidimensionale causata dall'attuale pandemia agisce come una potente rivelazione del tempo presente e della nostra fragile natura di esseri viventi. Questa è la riflessione sviluppata dal medico ed eticista svizzero Bertrand Kiefer nella rivista medica svizzera da lui curata.

Strana paura. Evanescente, sfuggente, infetta la mente di una società liquida. Viene dal mondo antico e parla del mondo che viene. Il mondo antico: quello di epidemie terrificanti, capricciose, senza cause note. E quello che viene: il mito che ha fondato la fiducia e l’orgoglio della modernità, la fiducia nell’onnipotenza dell’uomo sulla natura, sta crollando. O meglio, sta crollando l’idea che si trattasse di una protezione evidente, assicurata, infinita. Ci ritroviamo a vivere tra gli altri, fragili, semplici soggetti di ecosistemi.

“La popolazione è arrivata a credere che la scienza sia in grado di preservarla da antiche paure di infezione”

La nostra era si trova sotto l’incantesimo dell’ipertecnologia, imbarcata nella religione delle soluzioni, affascinata dal virtuale, avvolta nel suo potere, nel suo controllo, i geni che si tagliano e incollano, la coscienza che si riproduce in laboratorio, o quasi. E orgogliosa della medicina, della sua decuplicata capacità di previsione, dei suoi progressi su tutti i fronti, molecolare, informatico, robotico. Dietro a tutto questo c’è l’ambizione contemporanea di porre fine all’imprevedibilità della vita attraverso la tecnologia.

Abbiamo vantato, promosso e magnificato il potere della tecnologia, delle bioscienze e dell’informatica, così tanto che allo stesso tempo abbiamo scotomizzato, o perlomeno minimizzato, ciò che in natura e nell’esperienza umana rimane incerto, al di là della nostra comprensione, anche irrimediabilmente contingente. La popolazione è arrivata a credere che la scienza sia in grado di preservarla da antiche paure di infezione.

La delusione è immensa. Pensate: a seguito di un incrocio improbabile tra esseri viventi – il pipistrello e il pangolino, a quanto pare – emerge un virus e il mondo si ritrova sotto sopra, le economie in calo. Non è una cosa seria, è uno scherzo? Sulle reti sociali, la gente dice che si tratta di un colpo della CIA, oppure di un’enorme bugia. E anche questo tipo di cose non sono serie, eppure sono molto reali.

L’epidemia attuale si differenzia da quelle di altri secoli perché le sue cause ci sono note. Incapace di controllarle, la scienza le spiega, le seziona, le espone alla riflessione. Ma l’informazione sui meccanismi in atto, diffusa con mezzi ipermoderni, si basa forse sulla ragione scientifica, ma la sua ricezione rimane, per molti versi, irrazionale come sempre.

Prendendo il posto delle credenze magiche e religiose del Medioevo, le notizie false, i fantasmi inquieti, spesso pericolosi e xenofobi, occupano reti e menti. Come in passato, riflettono le profonde ansie dell’uomo di fronte all’ignoto e alla morte. Il progresso è molto debole. Il fatalismo del passato sembra essere ancora al lavoro. Così tanti sforzi per arrivare solo qui, si potrebbe dire alla luce del progresso scientifico.

Tutto sembra ridursi a una mobilitazione di affetti. La minima notizia, o previsione, è soggetta a commenti infiniti. Le opinioni finiscono per organizzarsi in credenze collettive. Il posto occupato nel “tempo cerebrale disponibile” da spettacoli, mostre e partite, ora cancellato a causa dell’epidemia, è occupato dalle emozioni che suscita e dai conseguenti club di opinioni.

Eppure, potrebbe esserci un dibattito su ciò che è importante. Dovremmo smettere di sviare il nostro sguardo dal nodo gordiano del tempo, lo stesso nodo che lega i nostri destini all’epidemia e all’ambiente. In altre parole, dovremmo prendere sul serio le questioni vitali che ci attendono. Agire globalmente, razionalmente, costruire il futuro con i pochi strumenti a nostra disposizione.

Ci troviamo invece di fronte agli stessi incredibili fabbricanti di verità, e a mille battaglie di retroguardia in cui ci attirano e ci rinchiudono. Negli Stati Uniti, il genio nazionale con il parrucchino giallo-arancio dice che l’OMS si sbaglia, che il CDC si sbaglia, che lui conosce la mortalità del virus e ogni caso di infezione nel suo paese. La nostra fragilità è la fragilità dei vivi, ma è ancora di più la fragilità della nostra civiltà.

“Il coronavirus non sarà il Big One. Ma il rischio che un giorno ci troveremo di fronte a una pandemia ad alta mortalità non è irrilevante.”

Il coronavirus non sarà il Big One. Ma il rischio che un giorno ci troveremo di fronte a una pandemia ad alta mortalità non è irrilevante. La novità è che possiamo proteggerci. Ma questo richiede apertura, condivisione della conoscenza, intelligenza organizzativa e la volontà di anticipare e prevenire. Si tratta quindi di cultura, solidarietà, civiltà. Vale a dire, poco e molto, il minimo vitale e l’unico modo per sopravvivere.

Molto di ciò che chiamiamo progresso deriva dal networking globale, sia di informazioni che di beni umani e fisici. Questa interconnessione ha cambiato tutto: economie, idee, mentalità e progetti. Con innegabile efficienza. Ma questo sistema ha due effetti perversi: emargina gli esseri umani, la loro libertà, la loro capacità di pensare, non il dettaglio, ma l’insieme, il progetto della società stessa. E – altro grave effetto collaterale – trascura la realtà attraverso la quale siamo connessi, molto più intimamente e vitalmente che attraverso qualsiasi altra rete: il vivente. E i suoi principali processi di sconvolgimento, i virus o il clima.

La nostra società, inoltre, appare tanto fatalista quanto le antiche tribù che veneravano la natura. Sottoposti ai criteri di quantificazione e ai flussi che noi stessi abbiamo organizzato, schiavi del potere di un’economia basata sulla performance e il PIL, siamo a corto di autonomia e di significato. Senza capacità di iniziativa per emergere da quella che sembra una forma di disperazione consensuale. Eppure, ciò che appare più necessario di tutto è di mettere in discussione in profondità i principi che organizzano la società.

“In questi giorni, su vasta scala, il mondo sta cambiando a causa dell’epidemia. È improbabile che si torni alle vecchie abitudini come se non fosse successo nulla.”

In questi giorni, su vasta scala, il mondo sta cambiando a causa dell’epidemia. Non è certo che andrà indietro. Intere popolazioni in quarantena, altre in una situazione di disordine professionale o di vita quotidiana, vivono un’esperienza vicina alla guerra. È improbabile che tornino alle loro vecchie abitudini come se non fosse successo nulla.

Questo cambiamento, questa sorta di conversione delle menti, è quanto possiamo solo desiderare. Sperare in una mutazione sociale e antropologica. Perché l’epidemia Big One è a sua volta una forma di mito. Ciò che abbiamo davanti a noi, assolutamente certi e immensamente importanti, sono gli sconvolgimenti climatici e ambientali. In questo campo, la certezza delle conseguenze e della nostra fragilità è molto più grande.

Bisognerebbe cambiare la società e noi siamo paralizzati. Perché questo determinismo di un’altra epoca, questa spina dorsale piegata di fronte a ciò che minaccia la nostra sopravvivenza? La scienza, che, è vero, ha assunto le dimensioni di un mito, è tuttavia, molto di più, uno strumento formidabile al servizio della libertà. E anche le democrazie sono organizzazioni sociali antifatalistiche, che hanno pazientemente costruito sistemi per guidare e adattare costantemente il percorso verso il futuro. È sempre più chiaro che tutto questo è fallito. Che tipo di vita vogliamo condurre? Con quali dimensioni umane, quali rischi, quale apertura?

Non si tratta di superare l’incertezza. Bisogna sempre preferire il dubbio alla fabbricazione del vero. Non ci sono garanzie per affrontare il futuro. Di fronte a un’epidemia, ci sono solo conoscenze, ragionamenti, valori discussi e decisioni. E, come unica bussola, una consapevolezza inquieta e non fatalista della nostra comune fragilità.

Questo testo è stato pubblicato nella Revue Médicale SuisseCollegamento esterno.

Traduzione di Armando Mombelli

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