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«La giustizia italiana non poteva chiudere gli occhi»

Un ex dipendente della Eternit Italia omaggia il procuratore Raffaele Guariniello (sulla sinistra) Keystone

Dopo il verdetto del Tribunale d'appello di Torino, la vicenda amianto potrebbe presto conoscere nuovi sviluppi che toccano da vicino la Svizzera. Intervista a Massimo Aliotta, vicepresidente dell’Associazione svizzera delle vittime dell’amianto.

Diciotto anni di reclusione – due in più di quelli comminatigli in prima istanza – e 89 milioni di euro di indennizzi a titolo di risarcimento provvisionale. È la pena inflitta lunedì dalla Corte d’appello di Torino all’imprenditore svizzero Stephan Schmidheiny, ritenuto colpevole di disastro doloso negli stabilimenti della Eternit S.p.A. Genova.

Vicepresidente dell’Associazione svizzera delle vittime dell’amianto, Massimo Aliotta non è sorpreso dalla sentenza.

swissinfo.ch: Dopo la lettura della sentenza il procuratore Raffaele Guariniello ha dichiarato «siamo andati al di là di ogni aspettativa». Condivide?

Massimo Aliotta: Pensavo che i sedici anni fossero confermati. Non mi aspettavo che il tribunale condannasse Stephan Schmidheiny a due anni in più. È ovvio che la difesa dice che la sentenza non è giusta, che andranno in cassazione e poi, se necessario, alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo.

Per qualcuno come me che segue questi casi da ormai undici anni, è invece chiaro che la giustizia italiana non poteva chiudere gli occhi su 3’000 vittime e dire che in quelle fabbriche tutto era andato bene. Per tantissimi anni in quegli stabilimenti sono successe cose incredibili.

In un comunicato, il portavoce di Stephan Schmidheiny, Peter Schürmann, e il legale dell’imprenditore svizzero, Astolfo Di Amato, definiscono «scandalosa» la sentenza emessa lunedì 3 giugno dal Tribunale d’appello di Torino.

Si è trattato – si legge nella nota – di «un processo politicamente motivato, non equo, con enormi pregiudizi veicolati dai media». In una campagna «senza precedenti», ancor prima dell’inizio del processo magistrati, rappresentanti delle associazioni delle vittime e dei sindacati, nonché i media locali, hanno addossato tutte le responsabilità a Stephan Schmidheiny – paragonato addirittura ad Hitler – e a Louis de Cartier (deceduto prima della fine dell’udienza in appello).

Durante i dibattimenti, la difesa aveva ribadito la tesi già espressa durante il processo di primo grado, contestando l’interpretazione secondo cui Schmidheiny avrebbe anteposto il profitto alla sicurezza. «Il gruppo svizzero – aveva sottolineato Astolfo Di Amato – ha perso nelle società italiane 75 miliardi [ndr: di vecchie lire], di cui una parte significativa è stata spesa in investimenti per la sicurezza».

Il legale ha inoltre cercato di confutare l’equazione ‘Eternit ha cagionato un disastro, Schmidheiny era a capo di Eternit e dunque ha provocato il disastro’. «Questo perché quando nel 1976 ha assunto un ruolo nel gruppo il disastro si era già verificato dopo decenni di attività dello stabilimento».

Un altro punto sollevato da Astolfo Di Amato era che «all’epoca vi era la convinzione nel mondo scientifico che fosse possibile un uso sicuro dell’amianto con l’abbattimento delle polveri. Per questo furono eseguiti enormi investimenti e gli enti che effettuarono le misurazioni rilevarono che le polveri negli stabilimenti erano effettivamente abbattute. Oggi non si possono mettere in discussione quelle misurazioni».

Per quanto concerne i risarcimenti, Peter Schürmann indica a swissinfo.ch che «già nel 2005, quindi ben prima che iniziasse il processo Eternit, Schmidheiny ha lanciato un’offerta umanitaria. L’azienda Becon SA offre alle persone afflitte da una malattia causata dall’amianto, in rapporto con le fabbriche Eternit in Italia, dei risarcimenti basati su standard internazionali. Dal 2006, oltre 1’500 persone hanno accettato questa offerta, definita ‘un’offerta del diavolo’ dai media italiani. Fino ad oggi sono stati versati oltre 50 milioni di indennizzi».

swissinfo.ch: È ottimista per quanto concerne il processo in cassazione?

M.A.: Non conoscendo ancora i dettagli della motivazione [ndr: saranno depositate 90 giorni dopo la sentenza], per ora è impossibile pronunciarsi.

La cassazione dovrà valutare anche una serie di questioni procedurali, ad esempio sul fatto se sia possibile o meno cambiare capi d’accusa. Il procuratore Guariniello ha iniziato la procedura tanti anni fa e nel corso dell’inchiesta sono venuti alla luce sempre più dettagli su ciò che è stato fatto – o meglio non è stato fatto – in quelle fabbriche e quindi i capi d’accusa sono cambiati.

swissinfo.ch: Alle parti civili sono stati accordati indennizzi a titolo di risarcimento provvisionale per 89 milioni di euro. Pensa che un giorno Stephan Schmidheiny dovrà mettere mano al portafoglio?

M.A.: Il signor Schmidheiny ha sempre detto di voler trovare una soluzione, di voler indennizzare le vittime. Fino ad oggi si è proceduto solo a una liquidazione parziale. Durante il processo in prima istanza, Stephan Schmidheiny aveva proposto una liquidazione fino a un massimo di 60’000 euro a testa. Alcune centinaia di vittime avevano accettato questo accordo extragiudiziale.

Bisognerà vedere se dopo questa sentenza potranno essere avviate trattative per un risarcimento integrale oppure se gli avvocati delle parti civili dovranno cercare di fare eseguire la sentenza in Svizzera, dove Schmidheiny ha una parte dei suoi soldi. Quest’ultima strada è però molto difficile.

swissinfo.ch: Presto si dovrebbe aprire un nuovo fronte processuale. La procura di Torino sta infatti conducendo un’altra inchiesta sulle vittime dell’amianto, per le quali Guariniello medita di contestare l’accusa di omicidio volontario. A che punto siamo? E in che modo questa procedura potrebbe toccare da vicino la Svizzera?

M.A.: Non si sa assolutamente nulla su quando verrà chiusa l’inchiesta. In Italia vige il segreto investigativo assoluto e si possono vedere gli atti solo quando il procuratore chiude l’inchiesta.

Le indagini riguardano comunque le vittime in Italia registrate dopo la chiusura della prima inchiesta, sfociata in questo processo di Torino.

Il procuratore Guariniello sta esaminando se aprire una procedura anche per 200 italiani che hanno lavorato negli stabilimenti Eternit di Niederurnen (Glarona) e Payerne (Vaud), che sono poi ritornati in Italia e sono deceduti a causa dell’amianto. Questo procedimento potrebbe riguardare non solo Stephan Schmidheiny, ma anche i vertici di allora delle fabbriche Eternit in Svizzera e la Suva [ndr: l’istituto nazionale svizzero di assicurazione contro gli infortuni].

swissinfo.ch: Per quale ragione la Suva potrebbe finire sul banco degli imputati?

M.A.: Perché non ha controllato sufficientemente le ditte in Svizzera che utilizzavano l’amianto. Tra gli anni ’50 e ’70, la Suva non ha fatto nulla per proteggere i lavoratori in Svizzera. È per questo che la Suva ha paura. Per anni ha cercato di evitare che gli incarti dei lavoratori italiani degli stabilimenti Eternit di Niederurnen e Payerne venissero inviati agli inquirenti torinesi. Nel 2005 il Tribunale federale aveva però confermato la legalità della consegna degli atti.

swissinfo.ch: La sentenza di Torino potrebbe accelerare delle procedure giudiziarie in altri paesi?

M.A.: Attualmente ci sono delle procedure in atto in Francia e in Belgio. Non direi accelerare, piuttosto dare un input giuridico. Dal punto di vista legale la situazione in questi due paesi è diversa. La sentenza potrebbe però dare una spinta ai tribunali, mostrando loro che ci sono delle possibilità per andare avanti.

In Svizzera ciò non è stato possibile. Le denunce penali sporte contro gli ex dirigenti della Eternit sono state respinte dal Tribunale federale poiché i termini di prescrizione erano scaduti. La Svizzera è un caso a parte: la prescrizione penale è di 10 anni dopo che il lavoratore ha inalato amianto, mentre in tutti i paesi dell’Unione Europea i termini decorrono a partire dal momento in cui la persona si ammala. Per le malattie causate dall’amianto, che hanno periodi di latenza molto lunghi, è una cosa veramente assurda.

swissinfo.ch: La Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo potrebbe però modificare questa situazione…

M.A.: Sì, non però a livello penale, ma dal punto di vista civile e delle responsabilità di diritto amministrativo.

La Corte di Strasburgo sta infatti trattando le denunce sporte da una vittima dell’amianto contro la ABB e la Suva, per non aver rispettato gli obblighi di sorveglianza.

Nel 2011, il Tribunale federale aveva sentenziato che le vittime che si ammalano più di dieci anni dopo l’ultimo contatto con l’amianto non possono chiedere un risarcimento danni al datore di lavoro. Se la Corte dei diritti dell’uomo ribalterà questo verdetto e darà ragione alla vittima, sarebbe un vero terremoto. Dovrebbero essere cambiate tutte le leggi e retroattivamente potrebbero essere fatte valere tantissime cause. I segnali che ci giungono da Strasburgo sono positivi e ci dicono che queste cause possiamo vincerle.

Per quanto concerne la trasmissione degli incarti del personale italiano impiegato negli stabilimenti di Niederurnen e Payerne agli inquirenti torinesi, la Suva ci indica che il ritardo era dovuto ad esigenze in materia di protezione dei dati.

«Si è dovuto attendere che il Dipartimento federale di giustizia e polizia prendesse posizione per definire se la Suva fosse autorizzata a rispondere a questa richiesta dell’Italia ed è ciò che è stato fatto».

Inoltre, nel quadro di due convegni organizzati in Ticino, la Suva ha «cercato attivamente come informare gli ex lavoratori italiani che avrebbero potuto essere esposti all’amianto durante l’attività lavorativa in Svizzera».

«In collaborazione con l’INAIL [ndr: l’istituto italiano per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro], sono state fornite informazioni ai medici italiani, poiché le persone rimaste esposte all’amianto possono far valere, in caso di malattia e senza limitazioni di tempo, il loro diritto alle prestazioni previste dalla Legge sull’assicurazione incidenti svizzera».

La Suva respinge inoltre con forza l’affermazione – «totalmente falsa» – secondo cui non ha fatto nulla per proteggere i lavoratori.

«Il divieto diretto dell’utilizzazione di certe materie come l’amianto non rientra nelle competenze della Suva. È regolato nell’ordinanza sulla riduzione dei rischi legati ai prodotti chimici. L’ufficio federale competente è quello dell’ambiente».

«A metà degli anni ’70, la Suva ha tuttavia inasprito le sue prescrizioni, abbassando i valori limite e introducendo le corrispondenti misure. Ciò ha permesso di sospendere in Svizzera l’utilizzazione di amianto floccato, particolarmente pericoloso per la salute. In seguito a questo abbassamento, durante gli anni ’80 l’amianto è stato progressivamente rimpiazzato da altri materiali in numerosi prodotti industriali e commerciali, quindi ben prima della messa al bando generale dell’amianto nel 1990».

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