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Frontalieri, “non si può disdire l’attuale accordo fiscale”

Auto incolonnate al valico doganale di Chiasso.
Non è stato ancora trovato a Roma un rimedio normativo al divieto per i frontalieri di guidare un'auto aziendale con targhe straniere. © Keystone / Gaetan Bally

Bocciati a Roma gli emendamenti che proponevano una soluzione al divieto, per i residenti, di circolazione su auto immatricolate all'estero. Mentre non viene apprezzata al di là del confine la "minaccia" del governo ticinese di disdire unilateralmente il vigente accordo fiscale sui frontalieri. 

Fumata nera sulla spinosa questione dei frontalieri alla guida di auto con targhe svizzere. Gli emendamenti al decreto “Milleproroghe” avanzati da Pd, Lega e Forza Italia – che intendevano correggere le modifiche al Codice della Strada (introdotte dal Decreto Sicurezza bis di Salvini) che penalizzano i conducenti di auto immatricolate all’estero – non hanno infatti superato la scorsa settimana l’esame della Commissione affari costituzionali di Montecitorio.

Il presidente dell’organo parlamentare Giuseppe Brescia (M5S) li ha infatti ritenuti inammissibili per questioni di natura tecnico-giuridica. Ma questo nuovo stop non sembra far desistere i deputati che, nei vari schieramenti, hanno voluto dar voce alle comprensibili lamentele dei frontalieri, utenti spesso di auto aziendali immatricolate nella Confederazione, che ora rischiano pesanti sanzioni (multe sino a 2’848 euro e il sequestro del veicolo) se sorpresi su suolo italiano alla guida di un mezzo del datore di lavoro.

Gli emendamenti, precisa il dem Enrico Borghi, sono stati bloccati perché il provvedimento su cui insistevano non aveva un aggancio di natura giuridica. Ma noi del Pd – aggiunge il parlamentare ossolano – li abbiamo ripresentati su un disegno di legge di modifica del Codice della strada che andrà in discussione molto presto.

Tvsvizzera.it: In concreto come pensate di intervenire per evitare che i frontalieri, spesso costretti ad usare un’auto aziendale immatricolata in Svizzera, siano penalizzati?

Enrico Borghi: Intanto puntiamo a sterilizzare la normativa. Poi possiamo intervenire sostanzialmente su due versanti: uno è la modifica del codice della strada, l’altro è la cosiddetta legge di delegazione europea, che è la legge con la quale un paese Ue recepisce una serie di misure di carattere comunitario.

Il deputato Pd Enrico Borghi
Enrico Borghi, deputato alla Camera per il Partito democratico, è nato il 6 agosto 1967 a Premosello-Chiovenda (VCO). Laureato in scienze politiche a Pavia, è entrato a Montecitorio nel 2013 per il Pd. In precedenza ha militato nella Democrazia Cristiana e nel Partito popolare italiano. È stato per un decennio (2009-2019) sindaco di Vogogna, nella Val Ossola. e-borghi.it

Quello che è certo – io ne ho avuto modo di parlare direttamente con il titolare del dicastero dell’Interno – è che noi vogliamo intervenire per risolvere questo problema. Lo strumento tecnico legislativo più idoneo lo decideremo poi nel corso della discussione.

Sempre in tema di frontalieri il governo ticinese, visti i ritardi di Roma nell’approvare l’intesa del dicembre 2015, medita di disdire unilateralmente l’accordo vigente, che comporterebbe pesanti conseguenze di ordine fiscale per i lavoratori pendolari e i comuni di frontiera, beneficiari dei ristorni. Cosa ne pensate?

La risposta è molto semplice: non si può fare. Stiamo parlando del nulla.

Ma il governo ticinese ha appena commissionato uno studio per valutare le conseguenze giuridiche di un’eventuale disdetta unilaterale.

Lei sa che c’è un proverbio che dice: con i se e con i ma la storia non si fa. Io rispetto il dibattito interno dei paesi amici.

Però, visto l’attuale clima, il Ticino potrebbe bloccare a giugno i ristorni, come del resto lo stesso esecutivo cantonale ha già fatto nel 2011.

Questa è una valutazione che faranno le competenti autorità, io spero che non si arrivi a tanto. Intanto guardiamo con grande attenzione al “referendum” del 17 di maggio (iniziativa UDC per un’immigrazione moderata, ndr). Speriamo che questo non significhi un momento di recrudescenza negativa dei rapporti tra Italia e Svizzera.

I rappresentanti ticinesi sanno benissimo quali sono i perimetri nei quali è possibile impostare un dialogo con noi, glielo abbiamo anche ricordato nel corso di un incontro tenutosi nell’ambasciata svizzera a Roma poche settimane fa. Poi ciascuno, nell’ambito della propria dialettica politica interna, assume le proprie prese di posizione.

Io non mi permetto né di sindacare, né di esprimere giudizi su partiti politici di un paese estero, che per noi è un paese amico, rispetto al quale noi vogliamo mantenere un rapporto non solo di buon vicinato ma di profonda collaborazione.

Sul tavolo c’è però sempre l’accordo firmato nel 2015 che l’Italia non sembra intenzionata a ratificare.

Non è stato firmato, è stato parafato, è una cosa diversa. Se vogliamo metterci a fare i legulei mettiamo i puntini sulle i. Rispetto a quel tema io continuo a dire sempre la stessa cosa. Chi ha interesse e volontà di riprendere quel tipo di discorso si veda la mozione approvata nel gennaio 2016 dalla Camera dei deputati, di cui sono il primo firmatario. Lì c’è la road-map di un possibile percorso di collaborazione. Altri tipi di impostazioni rispondono forse a dialettiche interne ma non costruiscono le basi di un’intesa. Per trovare un’intesa bisogna essere in due.

Ma l’intesa del dicembre 2015 continua a costituire una base per futuri negoziati italo-svizzeri?

Io quell’accordo non lo conosco. È stato parafato tra due governi, quel governo della Repubblica italiana non c’è più, siamo in una nuova legislatura, in uno scenario politico completamente e profondamente modificato. Se qualcuno vuole prendere atto di questo dato bene, altrimenti la storia non è che la possiamo cambiare noi.

A questo punto ripartire da zero nelle trattative potrebbe però creare qualche malumore al di qua del confine.

Non sto dicendo che bisogna ripartire da zero, sto dicendo che bisogna prendere atto del contesto in cui si collocano le discussioni e i confronti. Questo è un dato oggettivo. Noi avevamo indicato con molta chiarezza, nel gennaio del 2016, quale doveva essere il percorso: abbinare alla questione fiscale la questione sociale e introdurre un percorso di coinvolgimento dei territori all’interno di un governo complessivo dell’economia di questi territori che è un’economia integrata.

E quindi come tale ha bisogno di essere considerata in maniera conseguente. Se invece ogni quarto d’ora, da una parte o dall’altra, si alzano muri, si lanciano ripicche o ultimatum, significa che non c’è la reale volontà di trovare un punto di convergenza. Chi vuole lavorare per trovare un accordo si prenda quella mozione e sviluppi una proposta su quella mozione.

La questione “sociale” dello statuto del frontaliere è però prevalentemente una questione interna italiana più che di natura bilaterale.

Mica tanto, sono tutti aspetti che trovano un corrispettivo di confronto con la Svizzera. Se parliamo di indennità di disoccupazione, del riconoscimento dei titoli di studio, di welfare integrativo è chiaro che dobbiamo parlarne anche con i datori di lavoro elvetici e dobbiamo calare questo aspetto nel sistema di regole dove questi lavoratori italiani svolgono la loro attività. Non a caso il tavolo è insediato presso il Ministero degli esteri.

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