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Perché la conquista di Ramadi non segnala l’imminente caduta del Califfato

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di Dario Fabbri (Limes)

La riconquista di Ramadi è stata presentata in Occidente come una liberazione compiuta e significativa. Oltre che il segnale per lo Stato Islamico dell’inizio della fine. In realtà si tratta di un successo soltanto parziale che non scalfisce la tenuta del califfato, né garantisce al governo di Baghdad il controllo del territorio.

Ramadi è la capitale della provincia dell’Anbar, cuore sunnita dell’Iraq, (artificiale) nazione a maggioranza sciita. E’ da queste parti che, in seguito al rovesciamento di Saddam Hussein, ha dapprima attecchito l’insurrezione contro la forza di occupazione americana e in seguito contro l’attuale nuovo regime sciita e filo-iraniano. Per questo lo scorso maggio i miliziani dello Stato Islamico, i cui comandanti sono in buona parte ex membri della guardia repubblicana di Saddam, sono stati accolti in città come liberatori.

Data la posizione geografica, a soli 100 chilometri da Baghdad e sulla strada che conduce in Siria, e considerato il contraccolpo mediatico dovuto alla sua perdita, Ramadi è da sempre il primo obiettivo nella riconquista del territorio da parte del governo centrale. Se non fosse che l’ostilità della popolazione locale nei confronti di ogni ingerenza sciita la rende assai difficile da espugnare e dominare. Le forze governative hanno bisogno di sovrastare numericamente il nemico e di comprarsi la non belligeranza almeno di alcune tribù indigene, veri detentori del potere regionale. Esattamente quanto accaduto all’epoca della surge statunitense e di nuovo in questi giorni.

L’esecutivo guidato dal premier al Abadi ha impiegato circa 10mila uomini a fronte di appena 300-400 miliziani del califfato, una sproporzione che ne segnala il timore d’essere osteggiato dalla popolazione locale, e tramite elargizioni finanziarie e la promessa di un sostanziale autogoverno della città ha convinto alcuni capi tribù a schierarsi dalla sua parte.

Sebbene importante, per il califfo Ramadi rappresenta invece la periferia estrema del suo territorio e, come dimostrato dalla pressoché assenza di prigionieri, i miliziani sunniti hanno preferito ritirarsi dalla città per organizzare meglio la difesa di centri maggiormente strategici, nella consapevolezza che per ragioni etnico-politiche Baghdad incontrerà notevoli difficoltà a consolidare la propria vittoria. Nello specifico, dopo aver disseminato Ramadi di mine, nelle prossime settimane membri dell’internazionale jihadista potrebbero realizzare attacchi suicidi per innescare la rappresaglia delle forze governative e indurre gli abitanti a sollevarsi nuovamente contro gli “occupanti”. Costringendo l’esercito iracheno a impantanarsi nuovamente nell’Anbar.

Così come pare alquanto prematuro immaginare una veloce presa di Mosul, capitale della provincia di Ninive abitata da circa 2 milioni di abitanti, in maggioranza sunniti. Ritenuta questa dal califfo una città di importanza decisiva, Mosul sarà difesa strenuamente dagli aderenti allo Stato Islamico e, anche in caso di vittoria da parte dei governativi supportati dall’aviazione statunitense, in assenza di un esecutivo centrale realmente inclusivo che rispetti le istanze della minoranza potrebbe essere quasi impossibile mantenerne il controllo.

Al netto della propaganda, ciò che resta della battaglia di Ramadi è dunque soprattutto la volontà di Baghdad di battersi per recuperare il terreno perduto, ma la caduta del califfato appare ancora lontana.

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