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Per l’indipendenza della Catalogna c’è ancora molta strada da fare

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di Dario Fabbri (Limes)

Nonostante l’affermazione dei secessionisti nelle elezioni regionali di domenica scorsa, la strada della Catalogna verso l’indipendenza è tutt’altro che spianata. Per realizzare l’impresa, i nazionalisti devono ancora elaborare una strategia condivisa, superare le resistenze del governo spagnolo e degli altri Stati europei, nonché convincere gli elettori catalani che il distacco definitivo da Madrid sia la scelta giusta.

La coalizione di “Insieme per il Sì” (Junts pel Sí), fusione di due partiti indipendentisti collocabili rispettivamente a destra e a sinistra dello schieramento politico, guidata dal presidente della regione Artur Mas, ha conquistato il 39,5% delle preferenze e 62 seggi. A questa si aggiunge la secessionista “Candidature di Unità Popolare” (Cup), una lista anticapitalista che ha ottenuto l’8,2% dei voti e 10 seggi. Insieme possiedono la maggioranza assoluta al parlamento di Barcellona, ma date le palesi differenze politiche esistenti tra i due soggetti appare alquanto complicato promuovere una coerente azione di governo. In campagna elettorale Junts pel Sí ha promesso di dichiarare l’indipendenza entro 18 mesi dal voto, mentre gli esponenti di Cup vorrebbero una secessione immediata e sono contrari alla rielezione dello stesso Mas. Inoltre l’agenda politica dei due alleati differisce platealmente anche in campo economico e sociale.

Allo stesso modo i nazionalisti sono chiamati a vincere l’irremovibilità del governo centrale che non intende rinunciare alla regione più avanzata del paese, che da sola costituisce il 16% della popolazione e produce il 21% del pil nazionale. Da mesi il premier Mariano Rajoy brandisce la carta costituzionale per dimostrare l’illegalità dei propositi indipendentisti e l’Alta corte locale ora accusa Mas di disobbedienza civile, abuso di potere e peculato per aver organizzato il (simbolico) referendum sull’indipendenza del 9 novembre 2014. Sebbene l’immunità parlamentare lo ponga al riparo da un possibile arresto, il governo catalano ha definito «di stampo politico» le accuse nei confronti del presidente uscente.

Peraltro Madrid può contare sul sostegno delle altre capitali europee, impegnate a difendere l’unità della Spagna. La secessione è uno scenario che riguarda moltissimi paesi – dalla Gran Bretagna con la Scozia, al Belgio con le Fiandre, fino alla Francia con la Corsica – e in questa fase le cancellerie continentali sfoggiano una rara solidarietà di gilda tesa a respingere la (potenziale) disintegrazione del loro territorio nazionale. Così il portavoce della Commissione europea ha ribadito che una Catalogna indipendente sarebbe immediatamente estromessa dalla famiglia comunitaria, giacché «i trattati non si applicano ad un territorio precedentemente parte di un’altra nazione». E perfino Obama, normalmente poco interessato alle vicende del Vecchio Continente, il 15 settembre alla presenza del re Filippo VI s’è detto «interessato a mantenere una relazione bilaterale con una Spagna forte e unita».

Infine i nazionalisti devono persuadere i catalani ad abbandonare per sempre Madrid. Impresa tutt’altro che scontata. Benché Mas abbia presentato le elezioni come un referendum sul tema, domenica scorsa i partiti indipendentisti si sono aggiudicati soltanto il 47,7% dei voti e la maggioranza degli elettori locali sembra ancora preferire una massiccia autonomia all’indipendenza assoluta. Specie sulle questioni fiscali e giuridiche.

Come evolverà la questione catalana sarà più chiaro in seguito alle elezioni generali previste entro natale. Finora l’intransigenza del governo Rajoy ha contribuito a drammatizzare la situazione, ma un altro esecutivo potrebbe accordare a Barcellona abbastanza concessioni da disinnescare il movimento secessionista. Con grande sollievo delle principali capitali europee.

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