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Opere d’arte depredate, una discussione senza fine

La "Berliner Strassenszene" di Kirchner ha riacceso il dibattito sulle restituzioni Keystone Archive

Nel mondo dell'arte la Seconda guerra mondiale non è ancora terminata. Gli ebrei che hanno venduto le opere in loro possesso quando i nazisti erano al potere lo hanno fatto liberamente o per far fronte alle persecuzioni?

La questione divide l’opinione pubblica e riguarda anche la Svizzera, dove furono depositate e vendute molte opere d’arte provenienti da collezioni ebraiche.

Quando si pensa alle opere d’arte depredate durante la Germania nazista ci si immagina una scena violenta: la Gestapo entra nell’abitazione di un collezionista ebreo e confisca i beni. Ma non sempre questa scena corrisponde al modo in cui molte opere d’arte sono state sottratte ai loro legittimi proprietari fra il 1933 ed il 1945.

I beni degli ebrei che fuggivano dalla Germania nazista o di coloro che venivano deportati erano confiscati dalle istituzioni: i beni immobili erano rilevati dalle amministrazioni comunali, mentre mobili ed oggetti di valore venivano confiscati.

È andata così alla collezione privata di Gottfried Bermann-Fischer, dalla quale proviene il quadro di Camille Pisarro ritrovato qualche mese fa nel caveau della Banca Cantonale di Zurigo.

Bermann-Fischer, proprietario della casa editrice che aveva pubblicato Thomas Mann e Hermann Hesse, si era trasferito a Vienna dopo il 1933 con la sua collezione. Ma quando l’Austria è stata annessa alla Germania nel 1938, ha dovuto lasciare in fretta e furia il suo rifugio per sfuggire alla polizia nazista. Con sé è riuscito a portare solo il suo violino, uno Stradivari. Il resto è finito nelle mani della Gestapo.

Appare evidente che il quadro di Pisarro rientra sotto la categoria di bene depredato e che gli eredi di Bermann-Fischer hanno il diritto di riaverlo. Molto meno evidente è invece la restituzione di tutte quelle opere d’arte che hanno cambiato proprietario a seguito di una transazione legale.

Venduti per scelta o per necessità

Fin dall’inizio, la dittatura nazista ha escluso gli ebrei dalla vita economica del paese con lo «Judenboykott» – il boicottaggio dei negozi ebrei entrato in vigore il primo aprile del 1933 – e le depredazioni legate alle arianizzazioni forzate. In questo contesto, fino a che punto è lecito parlare di libera scelta nella vendita di un’opera d’arte da parte di un proprietario ebreo?

La questione ha recentemente infiammato l’opinione pubblica tedesca, confrontata al processo di restituzione di un quadro di Kirchner. Di proprietà del museo Brücke di Berlino, il quadro è stato fatto restituire da un tribunale all’erede della persona che lo vendette per sottrarsi alle pressioni del regime.

Anche molte opere d’arte trasferite in Svizzera dopo il 1933 dai loro legittimi proprietari, che speravano così di sottrarle alla confisca delle autorità naziste, sono poi state vendute. Il problema è stabilire se queste vendite – spesso perfettamente legali da un punto di vista formale – siano il frutto di una libera scelta o dipendano dalle condizioni difficili imposte agli ebrei dal nazionalsocialismo tedesco.

Caso per caso

Di questo e di altri aspetti legati alla restituzione di beni appartenuti agli ebrei si è occupato in aprile un convegno organizzato dall’Università di Postdam.

Il tono acceso della discussione ha mostrato quanto le cause di restituzione trascendano il fine di ogni processo, quello cioè di stabilire e risarcire abusi precedenti. Come tutta la giurisprudenza sulle riparazioni di crimini avvenuti durante il periodo nazista, anche le cause di restituzione di beni depredati implicano un giudizio morale su quello che è successo tra il 1933 ed il 1945 e polarizzano il dibattito.

Così Michael Naumann, ministro di Stato alla cultura del primo governo Schröder e firmatario della convenzione di Washington, ha inaugurato il convegno parlando di «colpa» e di «responsabilità» tedesche che dovrebbero guidare i processi di restituzione. Dal canto suo, Martin Roth direttore dei musei statali di Dresda, ha invece criticato il modo in cui il governo tedesco, i Länder (regioni) e i comuni hanno ratificato la convenzione di Washington.

Georg Heuberger della Jewish Claims Conference ha radicalizzato la discussione proponendo di considerare tutto il periodo dal 1933 al 1945 come un’unica entità, senza differenziare tra i vari stadi della persecuzione degli ebrei.

Dalla studiosa svizzera Esther Tisa Francini – che ha analizzato il contesto in cui è avvenuta la vendita di beni d’arte arrivati nella Confederazione e divenuti oggetto di varie cause controverse di restituzione – è per contro arrivata una proposta pragmatica: considerare ogni caso come un caso a parte. Solo una ricostruzione meticolosa dei fatti può permette di stabilire se la vendita è stata forzata e se il proprietario o i suoi eredi hanno diritto alla restituzione.

swissinfo, Silvia Cresti

La Convenzione di Washington impegna 44 nazioni ad identificare beni d’arte depredati.
La Germania l’ha ratificata con un’interpretazione estensiva dei «beni d’arte depredati», divenuti «beni d’arte sottratti a causa di persecuzioni in epoca nazista».
La Jewish Claims Conference rappresenta gli interessi dei sopravvissuti all’Olocausto e dei loro eredi.

Uno spettacolare processo di restituzione ha diviso l’opinione pubblica tedesca: il quadro di Kirchner «Berliner Strassenszene», esposto al museo Brücke di Berlino, è stato restituito all’erede di Alfred Hess, poiché la vendita del 1936 è avvenuta dietro pressione delle autorità naziste.

Hanno accompagnato la «causa Kirchner» vari convegni sulla politica di spoliazione di beni d’arte durante la dittatura nazista; da ultimo il convegno «Un dibattito senza fine? Opere d’arte depredate e restituzione nei paesi di lingua tedesca» organizzato in aprile dal Moses Mendelssohn Zentrum für jüdisch-europäische Studien presso l’Università di Potsdam.

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