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Le vittime svizzere dimenticate

Lavoratori forzati in un campo di concentramento
Lavoratori coatti nel campo di concentramento di Dachau, 1938. Bild 152-27-19A/Friedrich Franz Bauer/Deutsches Bundesarchiv

Quasi mille svizzeri hanno sofferto nei campi di concentramento nazisti. Il capitolo più sanguinoso della recente storia elvetica è stato fino a oggi trascurato dalla ricerca. 

L’orrore è riemerso nell’estate del 1996 nella casa di riposo zurighese di Entlisberg. L’ottantenne Albert Mülli ha rivissuto di nuovo le crudeltà a cui lui era stato sottoposto nel campo di concentramento di Dachau quando era giovane. Il socialdemocratico svizzero è stato rinchiuso lì per più di tre anni durante la seconda guerra mondiale. L’ultimo anno di vita di Albert Mülli nella casa di cura è stato un’agonia. A un ictus seguirono per lui degli incubi.    

“Ci faceva davvero male dover vedere come nostro padre, notte dopo notte nei suoi sogni, rivivesse nuovamente tutte le crudeltà che aveva sofferto a Dachau”, ricorda sua figlia. Il conforto del pastore riformato ha significato molto per lui, hanno scritto nel rapporto, che ora è depositato nell’archivio storico del Politecnico (ETH) di Zurigo.

Albert Mülli è uno delle centinaia di svizzeri, che hanno sofferto in tarda età a causa delle persecuzioni subite. Almeno 723 svizzere e svizzeri sono sopravvissuti alla fame, al lavoro coatto e agli abusi nei campi di concentramento nazionalsocialisti. Come minimo 206 svizzeri sono stati fucilati, picchiati a morte o mandati nelle camere a gas, come dimostrano documenti dell’Archivio federale svizzeroCollegamento esterno.

Ritratto di bambino e di giovane uomo
Albert Mülli da bambino e da giovane Archiv für Zeitgeschichte der ETH Zürich

Nessun conflitto violento ha registrato un numero maggiore di morti tra gli svizzeri negli ultimi 200 anni. Tuttavia, ad oggi, non si sa ancora chi furono i perseguitati. Le circa mille vittime sono state completamente dimenticate dalla storiografia elvetica.   

Nessun monumento onora le svizzere e gli svizzeri vittime dei nazisti tra il 1933 e il 1945. Nessuna lista di nomi ricorda gli svizzeri residenti all’estero vittime di maltrattamenti: simpatizzanti della Resistenza, ebrei, omosessuali, antifascisti o semplici malcapitati. Gli stessi svizzeri residenti all’estero, che magari erano colpevoli soltanto di aver ascoltato Radio Beromünster, sono stati “spesso crudelmente perseguitati”, come testimoniano alcuni atti del consiglio federale del 1959.

Un viaggio fatale a Vienna

Dopo la guerra, molti sopravvissuti svizzeri hanno taciuto del sadismo e delle violenze a cui furono sottoposti quotidianamente nei campi di concentramento. Albert Mülli no. Il futuro rappresentante del Partito socialista nel parlamento cantonale di Zurigo ha raccontato durante conferenze e nelle scuole delle sue sofferenze nel campo di concentramento di Dachau.

Il periodo più tremendo della sua vita iniziò nel novembre 1938 con un viaggio in treno. Mülli aveva 22 anni, era temporaneamente disoccupato e pronto a imbarcarsi in un’avventura. Il sindacalista stava portando una valigia con dei vestiti da Zurigo nella Vienna nazionalsocialista, nel cui doppiofondo erano nascosti 1000 volantini comunisti. Per questo aveva ricevuto 70 franchi. “Naturalmente sapevo che stavo facendo un servizio di consegna illegale”, ha dichiarato successivamente Mülli.

Il breve viaggio gli ha causato sei anni e mezzo di prigione nazista. Tre uomini della Gestapo arrestarono l’idraulico durante la consegna in un negozio di scarpe e un giudice nazista lo condannò a tre anni di prigione per “pianificazione di alto tradimento”. Dopodiché Mülli non è stato liberato ma inviato nell’inferno del campo di concentramento di Dachau. Il prigioniero numero 29331 non aveva più alcun nome. Il consigliere federale socialista Ernst Nobs si spese per il compagno Mülli, tuttavia i nazisti non lo rilasciarono. Furono i soldati statunitensi a liberarlo nell’aprile del 1945.

Come pasto, nel campo di concentramento c’era una “sbobba da cani”, una brodaglia di patate scartate con la buccia. “Volavano pedate e schiaffi in faccia. Abbiamo sofferto maledettamente il gelo”, ha raccontato anni dopo Mülli a un giornale del Partito socialista svizzero. Chi non lavorava a passo di corsa a Dachau, prendeva frustate. Chi perdeva le forze, veniva assassinato.

Mülli lavorava la maggior parte del tempo come idraulico installatore nei distaccamenti esterni del campo di concentramento. A lui, in quanto prigioniero politico, fu permesso di inviare lettere censurate alla sua amata. 30 righe ogni due settimane. Un altro privilegio era la possibilità di ricevere pacchetti dalla sua famiglia,  con frutta secca, formaggio, latte in polvere, sapone, zucchero o bende. Sua madre inviava anche denaro per posta nel campo di concentramento, affinché suo figlio potesse pagare le tasse doganali per la consegna dei viveri. Questo lo ha aiutato a sopravvivere ai tormenti.    

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soldiers with bikes

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L’uccisione di bambini zurighesi ad Auschwitz

L’adolescente svizzera Jula e Frédéric Rothschild non hanno avuto così tanta fortuna. Sono andati incontro alla morte nel 1942. I due fratelli vivevano come svizzeri all’estero nell’ovest della Francia con la loro madre Selma. Dopo la morte precoce del padre Samuel nel 1934, avevano lasciato Zurigo. Un mercoledì del luglio 1942 alle undici di notte uomini della Gestapo e agenti segreti francesi cambiarono improvvisamente la loro vita, rinchiudendo tutta la famiglia in una stanza piena di persone nella città di Angers. La loro fede ebraica bastava come motivo della cattura.

Il consolato svizzero a Parigi, avvisato immediatamente, sulle prime non fece nulla per liberare i connazionali. Cinque giorni dopo il loro arresto, era già troppo tardi: Jula, Frédéric e Selma Rothschild, insieme ad altri 839 detenuti, erano ormai stipati in vagoni merci e deportati nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. I medici delle SS sulla rampa di selezione individuarono 41 deportati “incapaci di lavorare” e li fecero uccidere immediatamente nelle camere a gas. Gli altri deportati furono annichiliti dai nazisti attraverso la penuria di cibo e la mancanza di cure mediche. Una morte a rate.

Al diciottenne Frédéric rasarono il capo, sequestrarono la valigia e gli incisero il numero 51300 sull’avambraccio con un ago di metallo. Lo zurighese aveva il compito di ammassare e trasportare nella camera mortuaria i corpi delle persone uccise, lasciate morire di fame o seviziate nel campo di sterminio. Più tardi avrebbe imparato a costruire baracche in una scuola per muratori. Quattro mesi dopo il suo arrivo nel campo di concentramento, il giovane non resse più ai tormenti. Le date di morte della sorella ventenne Jula e della madre di quarantacinquenne Selma non sono note. 

L’unico sopravvissuto della famiglia Rothschild fu il primogenito Jean, che durante la guerra era residente in Svizzera e stava frequentando la scuola reclute. Le autorità bernesi gli offrirono inizialmente soltanto 2500 franchi per la “perdita” della madre e 500 franchi per la morte di ognuno dei due fratelli. Questo corrispondeva alle direttive degli anni successivi al conflitto.   

Camicia di un lavoratore coatto di Dachau
La divisa di Dachau di Albert Mülli con il numero di prigionia 29331 Archiv für Zeitgeschichte der ETH Zürich

“Mai studiato sistematicamente”

Alcune storie simili a quella della famiglia Rothschild sono state ricostruite dagli storici. Tuttavia non c’è ancora un lavoro di ricerca dedicato a tutti gli svizzeri internati nei campi di concentramento, sebbene i deportati e le vittime compaiano in diversi rapporti della Consiglio federale durante gli anni Cinquanta. Nonostante gli oltre 1600 dossier personali conservati nell’Archivio federale svizzero. 

“Le biografie delle vittime non sono mai state vagliate sistematicamente”, ha lamentato la professoressa friborghese di storia Christina Späti: “Il dibattito scientifico su questo tema non corrisponde allo standard internazionale.” Persino in studi importanti sulle vittime europee del nazismo, la Svizzera rimane esclusa. “Praticamente ogni Paese dedica alle vittime del nazismo una lapide commemorativa. Solo in Svizzera non avviene nulla. L’Olocausto è ancora percepito come qualcosa di alieno rispetto alla Svizzera. Anche dagli storici.”

La professoressa quarantaseienne vuole cambiare le cose: “Ci vuole una nuova presa di coscienza collettiva sul fatto che anche degli svizzeri sono stati vittime del terrore nazista.” Così potrebbe essere dimostrato un legame diretto con la Svizzera. Come minimo Späti vorrebbe creare un sito internet con una lista di nomi delle vittime. Gli studenti dovrebbero un giorno apprendere che il potere nazista è stato fatale anche per un migliaio di svizzeri. La storica ha già l’appoggio di Jacques Picard, professore di Storia ebraica a Basilea: “Le vittime svizzere dell’Olocausto non hanno ancora trovato un posto adeguato nella memoria collettiva. Meriterebbero un monumento dignitoso.” 

Ridotto allo stato animale”

Christina Späti indagherà la storia dei prigionieri dei campi di concentramento. Le sue ricerche sul  sopravvissuto René Pilloud, romando, sono per lei l’inizio di uno studio sistematico. La Gestapo arrestò il friborghese residente in Francia nel febbraio del 1944, perché sospettato di appartenere alla Resistenza. Dopo un anno nel campo di concentramento, il diciannovenne pesava appena 37 chili. 

Negli ultimi giorni prima della liberazione, René Pilloud e altri 400 prigionieri dovettero dissotterrare patate in un campo, come lui stesso raccontò nel 1946 al giornale friborghese “La Liberté”: “Il 23 aprile 1945 fu il giorno più terribile per me. C’erano temperature basse e piogge torrenziali, sedevo a terra paralizzato, non avevo più la forza di mettere le patate nella rete. Ero triste e non pensavo più a niente, ridotto allo stato animale. Alla sera raggruppammo 50 morti. Questo giorno non lo dimenticherò mai. Molti dei miei compagni sono caduti. Due giorni prima il lager era stato ripulito, 1500 uomini sono morti, uccisi nelle baracche dalle SS con gas velenosi.” Anche il contadino svizzero Marcel Gaillard, compagno di prigionia di Pilloud, è morto   

“Praticamente ogni Paese dedica alle vittime del nazismo una lapide commemorativa. Solo in Svizzera non avviene nulla. L’Olocausto è ancora percepito come qualcosa di alieno rispetto alla Svizzera. ​​​​​​​” Christina Späti, professoressa all’Università di Friburgo

Queste storie tragiche sono indagate anche dai tre giornalisti svizzeri Balz Spörri, René Staubli e Benno Tuchschmid. Hanno esaminato attentamente interi fondi dell’archivio federale e cercano ora le liste di deportazione nei campi di concentramento relative a cittadini svizzeri. Il loro libro con il titolo provvisorio di “Schweizer im KZ” sarà pubblicato dalla casa editrice NZZ-Verlag e divulgherà la lista delle vittime dei campi di concentramento. 

Niente soldi dalla Confederazione

Per molti parenti si tratta di un risarcimento tardivo. Così scriveva al Consiglio federale Isidore Weill di La Chaux-de-Fonds nel giugno del 1945: “Perché non si scrive una lista di tutte le vittime della barbarie tedesca?” Lui aveva perso suo fratello André e sua cognata Lucie nel campo di sterminio di Auschwitz, poiché l’ambasciata svizzera di Tolosa non si spese in tempo per salvare la vita di ebrei svizzeri residenti all’estero. Nel 1956, il Ministero degli esteri elvetico addirittura ammetteva che “il caso è stato trattato con preoccupante negligenza” e riteneva una fortuna che Isidore Weill si rifiutasse di “informare l’opinione pubblica sul ‹nostro lavoro›”.

Anche oggi sembra che le istituzioni federali non abbiano alcun interesse a una discussione relativa alle vittime dei lager nazisti. La Svizzera presiede quest’anno l’International Holocaust Remembrance Alliance (IHRA), che sostiene le ricerche sull’Olocausto e progetti di preservazione della memoria. Tuttavia il Dipartimento federale degli affari esteri, nel quadro di questo incarico presidiale, non ha né sollevato la questione del finanziamento per chiarire la questione delle vittime nazionali, né ha menzionato il tema durante le numerose iniziative. Un portavoce si giustifica, dicendo che gli studi sono stati sostenuti attraverso consulenze di ricerca.    

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