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Berna intensifica la caccia ai criminali di guerra

AFP/Interpol

Con la creazione di una task force speciale, la Svizzera quest'anno compiuto progressi nella caccia ai criminali di guerra. I pubblici ministeri hanno aperto procedimenti per casi legati alla Confederazione.

Nel mirino ci sono in particolare due personaggi: l’ex ministro della difesa algerino Nezzar Khaled, sospettato di presunti reati di guerra civile, e l’ex capo della polizia guatemalteca Erwin Sperisen, accusato di violazioni dei diritti umani.

Le pressioni esercitate sulle autorità da organizzazioni non governative (Ong), come Amnesty International e TRIAL (Track Impunity Always, associazione con sede a Ginevra che lotta contro l’impunità), affinché assegnino risorse sufficienti agli organismi competenti per il perseguimento dei crimini di guerra e contro l’umanità sembrano aver dato i loro frutti.

Infatti, in seno al Ministero pubblico della Confederazione, da luglio, è operativo un nuovo Centro di competenze sui crimini contro l’umanità. Questa unità è composta di due investigatori della polizia federale e tre esperti giuridici. Pur essendo di piccole dimensioni, rappresenta un passo significativo, osservano i militanti per i diritti umani.

“La Svizzera sta finalmente prendendo sul serio i suoi obblighi internazionali”, afferma il direttore di TRIAL Philip Grant.

Nel 2001 la Svizzera ha ratificato lo Statuto di Roma, che ha portato alla creazione della Corte penale internazionale. Il diritto penale svizzero è stato adattato di conseguenza. Dall’entrata in vigore delle modifiche legislative, il 1° gennaio 2011, la Svizzera può perseguire persone sospettate di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio commessi in qualsiasi parte del mondo.

In precedenza la legge elvetica imponeva che la persona sospettata avesse stretti legami con la Svizzera (la famiglia o la residenza secondaria). Questa clausola è stata abolita. Perciò ora chiunque sia accusato di gravi crimini di guerra che si reca in Svizzera può essere oggetto di un’indagine penale.

Il 12 ottobre 2001, la Svizzera è diventata il 43° stato a ratificare lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale. Il diritto svizzero è in seguito stato adattato per consentirne l’applicazione.

I crimini contro l’umanità sono stati introdotti nel diritto penale svizzero. La definizione di crimini di guerra è stata resa più precisa e il campo di applicazione per il reato di genocidio è diventato più ampio. Questi nuovi articoli sono entrati in vigore il 1° gennaio 2011. Le modifiche della legislazione svizzera offrono nuove possibilità per perseguire presunti colpevoli di crimini di guerra.

Secondo il governo, la legge mira a “garantire l’efficienza e la trasparenza nel perseguimento in Svizzera dei crimini contro l’umanità e crimini di guerra e per garantire la repressione di tali atti”.

Delicato caso algerino

Il primo ad essere incappato nelle conseguenze delle modifiche è Khaled Nezzar. L’ex ministro della difesa algerino si è recato a Ginevra nel mese di ottobre dello scorso anno per sottoporsi a cure mediche.

Accusato da TRIAL e da due vittime di gravi crimini internazionali, il 75enne è stato fermato dalle autorità di giustizia ginevrine per essere interrogato. Dopo essere stato rilasciato, sembra che sia tornato in Algeria.

Nel frattempo il Ministero pubblico della Confederazione ha deciso di avviare un procedimento nei suoi confronti per crimini di guerra e crimini contro l’umanità, commessi in Algeria dal 1992 al 1999. L’ex ministro ha ricorso, contestando la competenza giurisdizionale delle autorità elvetiche. La Corte suprema svizzera il mese scorso ha però respinto il suo ricorso.

La decisione storica del Tribunale federale, in teoria, spiana la strada per far sì che Nezzar sia giudicato in Svizzera. I procuratori elvetici hanno ora il compito estremamente complesso di raccogliere elementi di prova sufficienti.

“Non ci sarà mai una cooperazione da parte delle autorità algerine, quindi è un caso molto difficile”, commenta Grant. “Sempre più vittime parlano e sono disposte a testimoniare. Basti per esempio guardare i loro video su Youtube. Ma come si fa ad accedere a queste persone?”

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Svizzero-guatemalteco

Un altro celebre caso è quello di Erwin Sperisen, capo della polizia del Guatemala dal 2004 al 2007, che ha la doppia cittadinanza svizzera e guatemalteca, arrestato lo scorso 31 agosto a Ginevra, dove viveva con la famiglia dal 2007, con l’accusa di coinvolgimento in esecuzioni extragiudiziali e altre violazioni dei diritti umani nel paese centroamericano.

Il sospettato, che nega con veemenza le accuse, è in detenzione preventiva nel carcere ginevrino di Champs Dollon. La sua domanda di rilascio è stata recentemente respinta dal Tribunale delle misure coercitive di Ginevra, che ha prolungato la detenzione per i bisogni dell’inchiesta fino al 26 febbraio 2013.

In Guatemala nell’agosto 2010 era stato spiccato un mandato di cattura nei suoi confronti e in quelli di 18 altri funzionari, tra cui l’ex ministro degli Interni Carlos Vielmann, fuggito in Spagna, e il vice direttore della polizia investigativa Javier Figueroa, al quale è stato concesso lo status di rifugiato in Austria.

“Non è escluso che si facciano tre processi contemporaneamente in tre paesi diversi e un altro ancora in Guatemala”, dice Grant.

TRIAL raccoglie prove in vista di possibili denunce da parte di singoli individui presso organismi internazionali per i diritti umani. Ha anche creato un programma di “Lotta contro l’impunità in Svizzera”, che riunisce informazioni su persone presenti sul territorio svizzero sospettate di crimini internazionali.

Casi principali:

Nezzar Khaled (2011, Algeria)

Jagath Dias (2011, Sri Lanka)

George W. Bush (2011, Stati Uniti)

Bouguerra Soltani (2009, Algeria)

Erwin Sperisen (nel 2008, Guatemala)

M. G. (2007, Somalia)

W. G. (2006, Afghanistan)

X. (2004, Algeria)

Habib Ammar (2003, Tunisia).

(Fonte: TRIAL)

La punta dell’iceberg

Dopo la sentenza pronunciata da un tribunale militare svizzero nel 2001 nei confronti di Fulgence Niyonteze per la partecipazione al genocidio in Ruanda, nessuno è più stato accusato in Svizzera per crimini internazionali. Ma quanti altri sospetti criminali di guerra in realtà vivono o passano in Svizzera?

“È impossibile rispondere, poiché non esistono statistiche in merito”, dichiara la portavoce della Procura federale Jeannette Balmer.

Ma la nuova unità che si occupa di crimini di guerra, non è inattiva. Attualmente si sta occupando di otto casi legati alla Svizzera che coinvolgono cittadini stranieri, di cui solo due sono vivono nella Confederazione, aggiunge la Balmer. Questi casi riguardano l’ex Jugoslavia, il Nord Africa, il Medio Oriente e l’Asia centrale.

TRIAL raccoglie autonomamente informazioni su casi specifici, che poi segnala alle autorità inquirenti. L’Ong ha portato alla luce sei casi, ma “stiamo solo grattando la superficie”, dice Grant.

Esperti hanno recentemente intervistato vittime in un paese, sul quale viene mantenuto il riserbo, che hanno parlato di un numero “imponente” di presunti criminali di guerra che vivono in Svizzera, Italia, Francia e Gran Bretagna.

I dati per altri paesi sono molto scarsi, ma l’anno scorso è stato rivelato che una speciale unità per i crimini di guerra all’interno dell’agenzia di immigrazione britannica aveva raccomandato di agire contro 495 persone negli ultimi cinque anni.

Maggiore accettazione

I militanti per la tutela dei diritti umani salutano l’arrivo delle nuove risorse alla Procura federale. Sottolineano che il personale del Centro di competenze sui crimini contro l’umanità è motivato e desideroso di applicare la legge. Ma occorre migliorare le procedure di lavoro, aggiungono.

Il diritto svizzero obbliga i servizi in materia di asilo e gli organi di perseguimento a comunicare tra di loro. Ciò dovrebbe essere automatico quando c’è un sospetto di crimini. Ma le ONG sostengono che non avviene in modo sistematico e lamentano che non è possibile fare verifiche poiché le procedure sono riservate.

Anche la cooperazione internazionale è migliorata, ma i servizi dei diversi paesi dovrebbero essere meglio collegati per condividere le informazioni, afferma Grant.

“Una volta ammesso che c’è una responsabilità condivisa da parte degli Stati, i politici dovrebbero dare le risorse necessarie per le proprie investigazioni e nei prossimi dieci o venti anni questo [tipo di lavoro] diventerebbe ampiamente accettato”, conclude.

(Traduzione dall’inglese: Sonia Fenazzi)

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