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Sequestri nel Sinai: un traffico milionario, con ramificazioni europee

Vittima di sequestro nel Sinai, questa giovane eritrea è stata sottoposta a un trapianto della pelle, a causa delle torture subite. Moises Saman / Magnum Photos

Decine di migliaia di eritrei sono stati sequestrati e torturati nel Sinai. Per la loro liberazione i rapitori chiedono un riscatto fino a 40mila dollari. I tentacoli di questi gruppi criminali si snodano fino in Europa, Svizzera inclusa, dove le autorità federali, però, tacciono. Testimonianze.


«Sentivo le urla dall’altra parte del muro, ma non so quanti prigionieri ci fossero. So solo che nella nostra cella eravamo in dieci. Avevamo le mani e i piedi legati al muro con una catena. C’era anche un bambino piccolo; piangeva sempre».

Rahwa* ha 21 anni, un corpo acerbo e gli occhi cerchiati di chi da tempo non dorme più sonni tranquilli. Fuggita dall’Eritrea nell’agosto del 2012, ha cercato rifugio in Sudan. Nel campo profughi di Shagarab, a pochi chilometri dalla frontiera, è però stata sequestrata assieme ad altri migranti e portata nel Sinai egiziano, dove dal 2009 – si è sviluppata una fitta rete di traffico di armi, droga ed esseri umani. 

Le ragioni della fuga

Dalla sua indipendenza, nel 1993, l’Eritrea è guidata col pugno di ferro dall’ex leader rivoluzionario Isaias Afewerki, 59 anni, formatosi nella Cina maoista. Il suo regime è considerato tra i più repressivi e paranoici al mondo; il paese tra i dieci più poveri al mondo. Nel giugno 2014, il Consiglio ONU per i diritti umaniCollegamento esterno ha deciso di aprire un’inchiesta sulla situazione in Eritrea, una misura adottata finora solo per la Siria e la Corea del Nord.

Accovacciata in un angolo, il capo coperto da un velo bianco, Rahwa fissa immobile la brocca di caffè. Poi riempie le tazze. Cinque: tante quante le vittime del Sinai rinchiuse in questa baracca di cemento, nei sobborghi di Addis Abeba.

I suoi amici la incitano a proseguire. «È difficile raccontare ciò che ho vissuto… Mi hanno picchiata e violentata. Torturata con scosse elettriche e plastica bruciata, che facevano colare sul mio corpo. Le vedete le cicatrici?». Mentre urlava, i sequestratori chiamavano la sua famiglia in Eritrea e in Europa, per chiedere un riscatto: 25mila dollari in contanti.

Rahwa è rimasta sei mesi nel deserto del Sinai. Il suo amico Gebre* un anno e mezzo. La sua famiglia non è riuscita a raccogliere i 40mila dollari richiesti. «Pensavano fossi morto e ormai inutilizzabile. Così mi hanno gettato per strada, come un rifiuto, sopra ai cadaveri di altri migranti».

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Un business milionario

Il fenomeno della tratta di esseri umani nella penisola del Sinai è stato denunciato più volte: prima dalle organizzazioni non governative, poi dalle Nazioni Unite e infine dal Parlamento europeo, con una risoluzioneCollegamento esterno adottata nel marzo del 2014. Finora, poco o nulla è però stato fatto per combattere il traffico alla radice, afferma Meron EstefanosCollegamento esterno, coautrice di due importanti studi sul temaCollegamento esterno.

Eritrei: bersagli privilegiati 

Inizialmente i sequestratori prendevano di mira tutti i migranti provenienti dal Corno d’Africa, ma col tempo si sono concentrati unicamente sugli eritrei. Questa scelta si spiega con la forte presenza di una diaspora eritrea in Europa e in Israele – particolarmente unita e suscettibile di poter pagare il riscatto. Ma è legata anche alla disperazione di questi giovani profughi, che assumono spesso rischi inimmaginabili, e alla scarsa attenzione mediatica e politica a loro riservata. 

In pochi anni, questa giornalista e attivista eritrea, naturalizzata svedese, ha raccolto migliaia di testimonianze, le ha portate davanti alle autorità europee ed è diventata un punto di riferimento per i migranti, che si passano il suo numero di telefono di mano in mano.

Stando alle stime di Meron Estefanos, tra il 2009 e il 2013 almeno 30mila persone sarebbero state sequestrate nel Sinai, per un bottino di 622 milioni di dollari. I gruppi criminali coinvolti sarebbero una quarantina. I tentacoli di questo traffico si spingono però anche in Europa, dove le famiglie eritree sono chiamate a pagare i riscatti e dove le reti d’intermediari si occupano di trasferire il denaro, nell’indifferenza quasi generale.

In Eritrea, di fatto, nessuna famiglia ha i mezzi per pagare simili somme, ma anche all’estero i rifugiati faticano ad arrivare a fine mese. Vengono organizzate collette, si fa capo ad associazioni, chiese, vicini di casa e parenti lontani. La gente s’indebita, pur di salvare i propri cari. Impossibile però sapere se in parallelo si sia sviluppato anche un altro traffico, quello degli strozzini. «Mia madre ha raccolto 35mila dollari per la mia liberazione», racconta Asmaron*, 21 anni. «Ora non le è rimasto più nulla, se non l’obbligo di ripagare quelli che ci hanno aiutato. In che modo, non lo so…».

Trasportati come merce umana

I primi anni, i migranti eritrei erano catturati direttamente nella penisola del Sinai, mentre cercavano di attraversare la frontiera israeliana. L’accordo anti-immigrazione tra l’Italia e la Libia aveva infatti reso impraticabile la via del Mediterraneo. Da quando però è caduto il regime Gheddafi (2011) e il governo Netanyahu ha fatto costruire un muro lungo 230 km (2012), la rotta migratoria si è spostata nuovamente verso la Libia e il mare. I profughi sono allora sequestrati in Sudan dalle tribù Rashaida, oppure direttamente in Eritrea, e poi rivenduti ai beduini del Sinai. Il tutto col beneplacito delle forze di sicurezza sudanesi ed egiziane, come denuncia lo stesso Parlamento europeoCollegamento esterno.

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«Il viaggio per il Sinai è durato una ventina di giorni. Non c’era acqua per tutti. Niente da mangiare. Abbiamo attraversato diversi posti di blocco. I soldati parlavano arabo; non capivo cosa dicevano. Nessuno però ci ha fermati», racconta Rawa.

Negli ultimi mesi, il traffico di migranti si è ulteriormente spostato. I sequestri nel Sinai sono stati «temporaneamente interrotti», afferma Meron Estefanos, in seguito all’operazione militare dell’Egitto contro i jihadisti attivi nella regione. Oggi gli eritrei vengono detenuti nel deserto del Sudan oppure utilizzati come schiavi in Libia, per trasportare le armi o lavorare nelle miniere.

Quando liberazione non fa rima con libertà 

Ad Addis Abeba è scesa la notte. La pioggia batte incessante sul tetto di lamiera. Fa freddo. Rahwa* e i suoi amici si coprono con i pochi vestiti rimasti. Tra qualche giorno andranno ad accrescere la lunga lista dei senza-tetto della capitale etiope. L’affitto era pagato da un altro profugo, partito per il Sudan.

Un rifugio temporaneo per le vittime del Sinai. swissinfo.ch

Averli incontrati ad Addis Abeba non è stata una casualità. Una volta liberati dal Sinai, dopo aver pagato il riscatto, le vittime si scontrano spesso con l’intransigenza delle autorità egiziane. Considerati migranti in situazione illegale, sono arrestati e imprigionati. «Sono rimasto quattro mesi in una cella in Egitto. Nessuno mi ha chiesto nulla, nessuno mi ha spiegato perché, racconta Asmaron. Poi un giorno le autorità egiziane mi hanno detto: puoi scegliere di essere espulso in Eritrea oppure in Etiopia. Ed eccomi qui».

Visti umanitari col contagocce

Da quando le domande presso le ambasciate svizzere sono state soppresse, nel settembre 2012, l’unica via per chiedere l’asilo all’estero è quella di un visto umanitario. Le condizioni sono però estremamente restrittive. Dal 29 settembre 2012 al 4 luglio 2014 sono stati accordati 58 visti umanitari, precisa l’UFM. 

Dall’Egitto e dal Sudan, diverse vittime del Sinai hanno provato a chiedere aiuto alla Svizzera, senza successo. «L’ottenimento dell’asilo o di un visto d’entrata in Svizzera [per una valutazione del caso, ndr] non è una compensazione per un torto passato, ma una protezione contro una minaccia attuale o futura», precisa l’Ufficio federale della migrazione (UFM). In altre parole, essere stato sequestrato e torturato non è sufficiente per chiedere protezione, come conferma una sentenzaCollegamento esterno del Tribunale amministrativo federale.

Un traffico che si snoda anche in Svizzera…

Di ritorno in Svizzera incontriamo Habtom. Ci racconta l’altra faccia della medaglia, quella dei famigliari contattati dai rapitori. «Mio fratello urlava, piangeva, mi chiedeva di aiutarlo». Era il 2009 e all’epoca i riscatti si limitavano a qualche migliaia di dollari. «Ho consegnato 2’800 dollari a una persona, a Zurigo, che avrebbe dovuto spedirli in Egitto tramite la Western Union. Non so se i soldi siano mai arrivati».

Per diversi mesi, Habtom non ha più notizie del fratello. Poi un giorno riceve una foto per mail: «Erano i cadaveri di mio cugino e… di mio fratello». Tre anni dopo, la storia si ripete. Il fratellino di 15 anni è rapito in Sudan. «Se non paghi, lo portiamo nel Sinai», gli dicono i rapitori. Come ha trovato i soldi, lui che non ha ancora un lavoro? «Ognuno mi ha dato quel che poteva, anche dieci franchi. Io ho fatto lo stesso per altri. E così mio fratello si è salvato ed è riuscito a raggiungere la Svizzera via mare».

Un aiuto sul posto, ma non in Svizzera

L’OIM e l’UNHCR hanno lanciato in Sudan un progetto a sostegno delle vittime della tratta d’esseri umani. Anche la Confederazione vi partecipa.Collegamento esterno Nessun aiuto specifico è invece previsto in Svizzera per i migranti che hanno vissuto esperienze simili. Nessuna attività di sensibilizzazione è stata portata avanti presso la comunità eritrea, suscettibile di essere ricattata dai trafficanti del Sinai, precisa l’UFM. 

Quello di Habtom non è un caso isolato in Svizzera. Dal 2010, il servizio di ricerche della Croce Rossa SvizzeraCollegamento esterno ha ricevuto almeno 40 richieste d’aiuto di eritrei vittime del Sinai, rivelava nel marzo 2014 un’inchiesta del quotidiano romando Le Temps. Ricontattata, la responsabile del servizio di ricerche Jeanne Rüsch, spiega: «Sta alle persone sporgere denuncia, noi non possiamo far altro che sostenerle. La prassi da seguire è però complessa: la denuncia di scomparsa va sporta presso la polizia comunale, che spesso non è al corrente del fenomeno. Poi il caso è trasmesso a quella cantonale, a quella federale e infine a Interpol, dato che il sequestro è avvenuto all’estero». 

… e sfugge ad ogni controllo

Preoccupata per l’estensione del fenomeni dei ricatti all’interno dei confini europei, EuropolCollegamento esterno ha invitato i paesi membri ad unire le forze per combattere questo traffico e portarlo a conoscenza del pubblico. La Svizzera figura da anni tra le principali destinazioni degli eritrei nel Vecchio continente – assieme a Svezia, Norvegia, Germania e Paesi Bassi – ed è quindi presumibilmente un bersaglio privilegiato per questo tipo di commercio milionario.

Raramente però le vittime sporgono denuncia. «Gli eritrei vivono nella paura e faticano a fidarsi della gente. Non è difficile da capire, visto che sono cresciuti in una dittatura paranoica», afferma Meron Estefanos. Nemmeno Habtom non si è rivolto alle autorità svizzere. «Perché avrei dovuto? Non c’era tempo, i miei fratelli sarebbero morti».

Il reportage è stato realizzato nell’ambito di eqda.chCollegamento esterno, un progetto di scambio tra giornalisti svizzeri e dei paesi in via di sviluppo.

Alcune ONG hanno segnalato casi di estorsione alla polizia federale (FedPol), nel tentativo di smuovere le acque. Contattata, la FedPol afferma però di «non essere a conoscenza del fenomeno» e ci invita a scrivere alle polizie cantonali. Lo abbiamo fatto, per lo meno quelle dei cantoni più grandi, ma solo Berna ha confermato di aver ricevuto una denuncia per estorsione, legata alla tratta di migranti nel Sinai.

Anche nell’Unione europea il fenomeno d’estorsione dei migranti resta pressoché impunito. Dopo numerosi tentativi naufragati, Meron Estefanos è finalmente riuscita ad attirare l’attenzione della polizia svedese, grazie anche all’intervento di un giornalista. La sua denuncia ha portato all’arresto di due intermediari. Una goccia nel mare, che potrebbe però aprire una breccia in questo oscuro traffico di esseri umani.

* Nomi fittizi 

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