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La mafia, “quella violenta colonizzazione delle menti”

Foto macchine esplose
Il 23 maggio 1992, in provincia di Palermo, sull'autostrada A29 nei pressi dello svincolo di Capaci, un attentato mafioso uccide il giudice Giovanni Falcone e altre quattro persone. Keystone / Str

A trent'anni dai due attentati in cui trovarono la morte Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, incontro con Antonio Vullo, l'unico sopravvissuto della strage di Via d'Amelio, e con lo psicoterapeuta Girolamo Lo Verso.

Siciliano e mezzo bergamasco, il professore Girolamo Lo Verso è psicoterapeuta, materia che ha insegnato a lungo all’Università di Palermo e che ha esteso a un argomento di studio molto particolare: la mafia. Fino al novembre 2021, quando è stato pubblicato il libro “Quando Giovanni diventò Falcone” (Ed. Pan di Lettere), non aveva mai evocato pubblicamente la sua amicizia con il giudice ucciso trent’anni fa, che aveva conosciuto negli anni Settanta. Per modestia e discrezione, ne parlava solo in privato. Quando l’ha scritto, pensava all’uomo, all’essere umano, “a differenza degli altri che parlano del mito e dell’eroe”. Gli “altri” sono gli innumerevoli autoproclamati “amici” di Giovanni Falcone, abbandonato, isolato e disprezzato durante la sua vita e strumentalizzato in ogni modo possibile dopo la sua morte.

Persona con barba, primo piano
Lo psicoterapeuta Girolamo Lo Verso, autore del libro “Quando Giovanni diventò Falcone”. Madeleine Rossi

Il libro è anche l’occasione di ricordare che Falcone aveva capito prima di altri che era necessario “guardare la mafia dal di dentro, per quello che è, rendendola sempre più comprensibile e visibile”. Il solo modo di vincerla, ha detto, è ridurla a una normale organizzazione criminale. “Ma perché la mafia non è una normale organizzazione criminale?”, si chiede Girolamo Lo Verso, “perché si comporta come uno Stato, perché impone il pizzo, perché è un’organizzazione economica? Sì, ma anche perché è un’antropologia e una psicologia. Se non capiamo i mafiosi per come sono loro, non li cambieremo mai e non li ribalteremo mai”.

Uno studio ha mostrato che i nomi e i cognomi delle famiglie di mafiosi giudicati cent’anni fa si ritrovano ancor oggi nei processi attuali. Più che di condizionamento, si tratta della creazione di un’identità talmente forte da diventare biologica. Il professor Lo Verso parla di un mondo in cui la nozione di individuo è inesistente, e in cui alcuni elementi della cultura tradizionale – ad esempio dare al proprio figlio il nome del nonno – sono sfruttati all’estremo “per formare una persona, anzi una non-persona, totalmente ligia alle logiche e agli ordini della mafia stessa”.

Ulivo con foto
Molte persone continuano a lasciare messaggi di omaggio alle vittime dei due attentati sull’ulivo di via d’Amelio 21. Madeleine Rossi

Una decina di anni fa, il ricercatore ha potuto svolgere uno studio in un penitenziario di Reggio Calabria. I partecipanti erano tutti ‘ndranghetisti sottoposti al carcere duro. “Abbiamo spiegato loro ciò che volevamo fare, abbiamo assicurato che il segreto professionale sarebbe stato garantito e che chi voleva partecipare poteva iscriversi. A un certo punto si sono mossi in tanti e sono venuti a iscriversi. Chiaramente, il capomafia aveva fatto un segnale e mi sono ritrovato con 15 persone. Ovviamente non hanno accettato che le conversazioni fossero registrate. Però seguivano tutti una linea comune: la ‘ndrangheta non esiste”.

Può sembrare paradossale, ma il mafioso nega ciò che costituisce la sua essenza e rappresenta tutto per lui: una famiglia, uno Stato, un esercito, la giustizia, in altre parole: un modello completo. Solo pochi collaboratori di giustizia riconoscono di appartenere a un’organizzazione, e anche in questo caso in termini metaforici, mutuati dalla mitologia mafiosa: “Non ho colpa, io vengo da quella pianta lì”.

Ciò è il risultato di questa identità collettiva, solida e “totalizzante”, spiega Girolamo Lo Verso, che in 40 anni di pratica della psicoterapia ne ha viste di tutti i colori ma nulla di così estremo come questa “violenta colonizzazione delle menti, del suo costruire mogli silenti e obbedienti, che sanno tutto ma non fanno nessuna domanda, e figli del tutto replicanti e futuri assassini seriali”. Quando uccidono, lo fanno con totale indifferenza, con freddezza e spesso senza motivo, solo perché è stato detto loro di farlo.

Il servizio del TG sui 30 anni della strage di Capaci:

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“Un inferno che ci portiamo dentro”

Poi ci sono coloro che sono sopravvissuti alla furia della mafia. Sono rari. Abbiamo appuntamento in Via d’Amelio 21, a Palermo. È una strada stretta, un vicolo cieco, fiancheggiata da parcheggi e edifici moderni. Qui si trova un ulivo, ricoperto di nastri, messaggi, con delle parole lasciate da chi è venuto a rendere omaggio a Paolo Borsellino e a cinque poliziotti: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Cosina e Claudio Traina. Il 19 luglio 1992, 57 giorni dopo l’attentato di Capaci che uccise Falcone, la moglie e tre agenti di scorta, un’autobomba esplode ai piedi del palazzo dove Paolo Borsellino era venuto a trovare la madre. Dopo la morte dell’amico e collega, Borsellino aveva detto: “Sono un morto che cammina”.

Macchine distrutte
Via d’Amelio, Palermo, poco dopo l’attentato cui fu ucciso il giudice Paolo Borsellino. Copyright 2017 The Associated Press. All Rights Reserved.

Antonio Vullo, l’unico sopravvissuto all’attentato, potrebbe invece definirsi “un dolore che cammina”. Non si lamenta, parla e racconta instancabilmente ciò che ha vissuto quel giorno e che da allora lo perseguita: “È un inferno che ci portiamo dentro”. Poco prima di arrivare sul posto in quel fatidico giorno, lui e un collega avevano notato che il cielo si stava coprendo e avevano avuto la sensazione che la giornata stesse per diventare più buia. Era la realtà o un effetto dello stato d’allerta in cui si trovavano costantemente? Vullo notò le auto parcheggiate ai piedi dell’edificio. “Ce ne erano troppe, non mi piaceva”. Ma nessuno ha avuto dei sospetti. Borsellino, circondato da diversi agenti, stava chiacchierando con loro fumando una sigaretta, in attesa che la madre rispondesse al citofono. Vullo stava manovrando il suo veicolo un po’ più distante, quando improvvisamente “l’auto si è alzata in aria e mi sono ritrovato circondato dalle fiamme. Non ho capito subito. L’auto è ripiombata per terra e sono riuscito ad uscirne, non so ancora come. Fuori c’era un fumo nero, denso e acre. Non si vedeva nulla. Ero convinto che il dottor Borsellino e gli altri fossero all’interno dell’edificio. Mi sono messo a correre per chiamare i soccorsi. Poi sono venuto sul luogo dell’esplosione per cercare i colleghi. Ho visto una scarpa, era quella di Claudio Traina”.

Persona in primo piano
“Sto cercando di riconciliare il pezzo di me che manca”, dice Antonio Vullo, sopravvissuto all’attentato di Via d’Amelio. Madeleine Rossi

Le immagini dell’epoca mostrano l’incendio, le macerie, i soccorritori, i giornalisti e i poliziotti presenti sul posto. Per contro, l’uomo che ha approfittato del disordine generale per avvicinarsi a ciò che restava dell’auto di Borsellino e rubare la sua agenda rossa non compare da nessuna parte. Questo famoso diario, in cui il giudice annotava assolutamente tutto e che per una buona ragione non lo abbandonava mai…

Mentre discutiamo, una signora anziana si ferma e lo abbraccia. Sembra essere una delle poche persone in questa strada a non essere infastidita alla presenza quasi costante di scolaresche e turisti venuti a “vedere” o “studiare” questo luogo emblematico. Altri abitanti ci passano accanto, a testa bassa, una donna sbatte rumorosamente il cancelletto. Cosa si può dire di queste manifestazioni di malcontento? Nulla, sennonché all’epoca nessun abitante si è costituito parte civile o ha appeso striscioni di sostegno, a differenza della stragrande maggioranza dei palermitani. Vullo, dal canto suo, era parte civile, ma il suo avvocato, nello spirito dei tempi, gli disse: “Ti metti contro i mafiosi?”.

Ma questo è stato solo l’inizio. Già sopraffatto dalla vergogna e dal senso di colpa per essere sopravvissuto – un tratto comune a chi, come lui, è scampato per caso o per miracolo – Vullo ha poi dovuto subire minacce: “Parli troppo, ormai sei un uomo morto”. Racconta l’angoscia, la depressione e le molte ferite invisibili: vertigini, acufeni, violenti mal di testa. Esprime la sua rabbia verso i politici di oggi, sostenuti da persone complici della mafia, ed è ancora infuriato all’idea che Borsellino possa essere morto in questo modo dopo l’attentato a Falcone. E conclude così: “Sto cercando di riconciliare il pezzo di me che manca”.

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