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Svizzera disarmata di fronte all’odio social?

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Seguire ciò che accade sulla vasta rete dei social è una sfida non indifferenze per la polizia. Keystone

Minacce di rappresaglie, appelli all’odio razziale, insulti: è il genere di commenti suscitati dalla pubblicazione di un video che mostra l’aggressione di un giovane in una cittadina del canton Giura. Un caso che mette in evidenza le difficoltà nella lotta contro la proliferazione dell’odio in rete e il difficile equilibrio tra libertà d’espressione e discriminazione.

Stazione di Delémont, inizio ottobre. Un giovane è aggredito da un coetaneo. La scena viene filmata, poi pubblicata sui social. In poche ore il video registra 50’000 visualizzazioni, 20’000 condivisioni e più di un migliaio di commenti, per poi essere ritirato dalla madre della vittima, su consiglio della polizia giurassiana.

La ragione? La valanga di commenti razzisti e di appelli alla vendetta scatenati dalle immagini, che mostrano un aggressore nero e una vittima bianca.

Prima ancora che l’aggressore venisse fermato dalla polizia, la procura del canton Giura aveva avvertito che ulteriori incitazioni all’odio sarebbero stati perseguiti per via giudiziaria.

Il diritto alla libertà d’espressione

Ma chi può essere perseguito in casi simili e in che modo? I fatti di Delémont mostrano al contempo la difficoltà di vigilare su quanto viene pubblicato su internet e il sentimento che sia sempre più necessario trovare strumenti adeguati per farlo, di fronte al numero crescente di casi di incitamento all’odio, bullismo e intimidazioni sui social.

In Svizzera, la libertà di espressione è stata iscritta nella Costituzione federaleCollegamento esterno nel 2000. L’articolo 16 sancisce il diritto di «formarsi liberamente la propria opinione, di esprimerla e di diffonderla senza impedimenti». Un diritto garantito anche dall’articolo 10Collegamento esterno della Convenzione europea dei diritti umani, che include la libertà di comunicare informazioni o idee senza ingerenza delle autorità, e dall’articolo 19 della Dichiarazione universale dei diritti umaniCollegamento esterno.

Ma la libertà d’espressione non è senza limiti e l’equilibrio tra il rispetto di questo diritto fondamentale e gli obblighi dei cittadini nei confronti di altre persone e dello Stato non è sempre facile da trovare.

In Svizzera, i limiti posti alla libertà d’espressione si trovano principalmente in tre disposizioni giuridiche: l’articolo 261bis del Codice penaleCollegamento esterno, la cosiddetta norma antirazzismo; l’articolo 173 che vieta i «delitti contro l’onore» e la diffamazione; e l’articolo 28 del Codice civileCollegamento esterno, che garantisce la «protezione della personalità».

In base a queste norme, chiunque denigra o discrimina una persona per la sua etnia o religione rischia di incorrere in una pena fino a tre anni di prigione. Nel 2015, il Tribunale federale aveva condannato un politico dell’Unione democratica di centro (Udc, destra conservatrice) al pagamento di una multaCollegamento esterno per violazione della dignità umana in seguito a un commento pubblicato su Twitter: «Magari abbiamo nuovamente bisogno di una Notte dei cristalli (…) questa volta contro le moschee».

Anche gli attacchi contro le minoranze non citate espressamente nella norma antirazzismo, come le persone LGBTIQ o le persone con handicap, sono perseguibili penalmente, ma in questo caso le vittime devono fare appello alla norma sui «delitti contro l’onore» o per la «protezione della personalità».

Difficoltà a vigilare sul web

L’applicazione di queste disposizioni non va però da sé. In primo luogo, definire se un gesto è razzista è soggetto a interpretazione nel sistema giuridico. Ciò che per taluni è un’opinione, per altri è un’ingiuria. Ne è un esempio il caso Dogu Perinçek, condannato nel 2007 dal Tribunale federale per aver negato il genocidio armeno e poi assolto dalla Grande Camera della Corte europea dei diritti umani nel 2015.

Secondo la piattaforma humanrights.chCollegamento esterno, in Svizzera non esiste una definizione ufficiale di «discorsi di incitamento all’odio» (“hate speach” in inglese) e ciò malgrado le Nazioni Unite abbiano proposto una lista di criteri non vincolantiCollegamento esterno per contribuire alla lotta contro tutte le forme di discriminazione.

La seconda sfida è quella di controllare i milioni di commenti che vengono pubblicati ogni giorno su internet. Stando al quotidiano Le TempsCollegamento esterno, Zurigo ha assunto due anni fa il primo poliziotto online della Svizzera (ICoP, “Internet Community Policing), incaricato di sorvegliare la rete e di calmare agli animi in caso di necessità. Resta però da capire se misure simili riusciranno davvero a contrastare il problema.

Infine, se la procura può aprire un’inchiesta per istigazione all’odio razziale o religioso, nei casi di attacchi contro altre minoranze non contemplate esplicitamente nel Codice penale spetta ai diretti interessati sporgere denuncia. E non tutti sono disposti o hanno gli strumenti per farlo.

Autodisciplina o intervento statale?

Sulla scia delle cosiddette «fake news», negli ultimi anni è cresciuta la pressione internazionale anche nei confronti dei giganti del web come Facebook e Twitter, affinché assumano una più grande responsabilità nella moderazione dei commenti pubblicati in rete.

Attualmente la piattaforma di Zuckerberg permette unicamente di segnalare messaggi ritenuti inappropriati, ma non è sempre chiaro in quali circostanze i moderatori decidano poi di sopprimere o meno un commento razzista o omofobo.

Anche su Twitter esiste la possibilità di segnalare un profilo per determinate violazioni, come spam o contenuti offensivi. Il conto può in seguito essere bloccato. La piattaforma di microblogging sta inoltre pianificando un rafforzamento delle regole di condotta, per meglio lottare contro la diffusione di discorsi incitanti all’odio.

Per il momento, tuttavia, l’introduzione di regole più severe dipende unicamente dalla buona volontà di queste compagnie, per lo meno in Svizzera. Nel mese di maggio, il governo è giunto alla conclusioneCollegamento esterno che non sono necessarie nuove misure sull’uso dei social. Poiché alcuni aspetti problematici «sono già coperti dal diritto vigente» e «i gestori delle piattaforme hanno lanciato diverse iniziative di autoregolamentazione», il governo preferisce osservare gli sviluppi a livello nazionale e internazionale, prima di un eventuale intervento dello Stato.

Traduzione dall’inglese, Stefania Summermatter

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