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Le ragioni del no ticinese all’Europa

Il Ticino conferma in modo inequivocabile la sua tradizione euroscettica. E la Lega esulta Keystone

Più chiaro di così: l'euroscetticismo del Ticino ha trovato una granitica conferma in occasione del voto sull'estensione della libera circolazione delle persone a Romania e Bulgaria. Una chiusura che ha solide radici.

La classe politica ticinese è unanime: Berna deve prendere sul serio questa ennesima espressione di chiusura nei confronti dell’Europa. Ma lo deve fare cercando di capire le ragioni di questa opposizione, che ha profonde radici nel cantone.

Un cantone che per molto tempo ha potuto vivere di posizioni di rendita, molto esposto al flusso quotidiano dei frontalieri, a ridosso di una potente realtà economica quale la Lombardia, penalizzato dalla mancata reciprocità della libera circolazione delle persone e poco abituato ad una vera concorrenza.

Il peso della realtà italiana

La mancata reciprocità sul mercato del lavoro è un problema noto anche a Berna; il Dipartimento federale dell’economia sa benissimo che un ticinese che desidera lavorare in Italia deve affrontare una montagna di ostacoli e strettoie burocratiche, mentre per l’italiano che viene in Svizzera la via da percorrere è più facile e più breve.

Ma è solo colpa della mancata reciprocità? In realtà nel no ticinese si annidano origini più profonde. “Le ragioni del no – spiega a swissinfo Luca Albertoni, direttore della Camera di commercio del Canton Ticino – sono in realtà diverse e non possono essere unicamente ricondotte alla mancata reciprocità. Credo che ci sia soprattutto molta paura, in parte anche giustificata e comprensibile”.

“Occorre anche riconoscere – continua Albertoni – che la realtà economica italiana è molto aggressiva e il quadro istituzionale molto instabile e nervoso. Se a ciò sommiamo l’apparente mancato rispetto delle regole da parte italiana e la diffusa incertezza, siamo di fronte ad una miscela esplosiva. E noi dobbiamo tenerne conto”.

Ma come mai la voce dell’economia, quella che opera quotidianamente sul terreno, non viene ascoltata dai ticinesi? “Questa – commenta Albertoni – è una bella domanda, perché oggettivamente non ci sono ragioni economiche per motivare un no così compatto. Una cosa è certa: in Ticino il discorso dell’interesse nazionale non fa breccia, poiché si considera che i bilaterali servano solo gli interessi delle grandi aziende e delle multinazionali”.

Le sfide della competizione globale

La travagliata relazione tra il Ticino e l’Europa è stata al centro di uno studio (“L’Europa vista dal Ticino”) curato dal politologo Oscar Mazzoleni, direttore dell’ Osservatorio della vita politica e docente di Scienze politiche all’Università di Ginevra e di Losanna. Perché l’Europa continua a fare paura?

“Negli anni ’70 il Ticino votava piuttosto come la Svizzera romanda sui temi di politica estera. Gli anni ’90 – spiega a swissinfo Mazzoleni – hanno rappresentato una svolta duratura. Dalla votazione sullo Spazio economico europeo del 1992, la maggioranza dei ticinesi ha sempre votato contro qualsiasi avvicinamento all’Europa”.

“L’integrazione europea – continua il politologo – fa riaffiorare antiche paure, che si presentano in forma nuova. Più che l’operaio polacco, il tema delle aperture delle frontiere e della circolazione delle persone è visto come sinonimo di una perdita di status economico, come insicurezza di fronte alle sfide della competizione globale, ma anche a quella transfrontaliera”.

Altre regioni di frontiera – come Ginevra, Neuchâtel e Giura – votano in modo però molto diverso. Allora come si spiega il caso ticinese? Oscar Mazzoleni propone una lettura molto interessante, che bene illustra la specificità della realtà ticinese:

“Il Ticino è l’unico cantone svizzero che, storicamente, somma tre forme di perifericità: linguistica, come unico cantone di lingua italiana; geo-politica, come cantone subalpino, con mezzi di comunicazione e trasporto che ostacolano i rapporti con il resto della Svizzera; economica, come cantone che fino a pochi decenni fa viveva complessivamente nell’indigenza e che ancora oggi ha un’economia in parte fragile e molto dipendente dalla congiuntura”.

Fatte queste premesse, il politologo fa anche notare che “la lunga crisi degli anni ’90 è stata uno shock dopo i decenni del benessere del dopoguerra. L’integrazione europea ha fatto riemergere i timori di essere considerati marginali in Svizzera, ma anche di diventare periferia della Lombardia, una realtà di 9 milioni di abitanti, dotata di una piccola imprenditoria molto dinamica, ma anche di salari mediamente inferiori per molte categorie di lavoratori”.

Il ritorno alla frontiera come protezione e sicurezza

Questa volta, lo scarto con la media svizzera è però aumentato rispetto all’ultima votazione sui bilaterali. “Alla fragilità strutturale, si è aggiunta quella della congiuntura attuale. Negli ultimi mesi – precisa ancora Mazzoleni – la disoccupazione è assai aumentata nel Cantone Ticino, più che in molti altri cantoni. Ciò non significa solo licenziamenti, ma anche maggiore incertezza rispetto al proprio futuro. La crisi economica e finanziaria globale spinge più che altrove a volere un ritorno delle frontiere come protezione e sicurezza”.

Un fatto appare incontrovertibile: gli argomenti della Lega dei ticinesi fanno breccia, mentre la voce degli altri partiti – e dei sindacati – rimane inascoltata. È solo un problema di comunicazione? “La ripetizione del voto negli ultimi anni su temi europei – sottolinea l’esperto – ha favorito un consolidamento degli orientamenti di voto, che tendono a variare poco nelle settimane precedenti il voto. Questo fenomeno era evidente nel voto sulla libera circolazione del settembre 2005”.

Come spiegare questo consolidamento? “Vi contribuisce il fatto che il Ticino è il solo cantone dove agisce attivamente – con un settimanale gratuito ad alta tiratura – un partito di difesa regionalista, o meglio cantonale, che nel contempo si oppone all’UE”.

“Non va inoltre dimenticato che nelle scorse votazioni sull’Europa, come nel recente referendum, si sono espressi pubblicamente contro i bilaterali anche esponenti degli altri partiti, soprattutto nel PLR e PPD. La mia impressione – conclude Mazzoleni – è che, questa volta, la campagna ticinese, soprattutto quella dei favorevoli, sia stata assai meno intensa rispetto al resto della Svizzera”.

swissinfo, Françoise Gehring

L’estensione a Romania e Bulgaria, della libera circolazione delle persone è stata approvata nella misura del 59,6% a livello nazionale. Solo quattro cantoni hanno espresso parere negativo: Svitto (56,6%), Appenzello interno (53,4%) Glarona (51%) e il Ticino (65,8%).

Il Ticino, unico cantone di frontiera ad aver votato no, già nel maggio 2000 aveva votato contro i sette accordi bilaterali I e nel settembre 2005 si era opposto all’estensione della libera circolazione ai 10 nuovi stati dell’UE.

Sarebbe stato stupefacente il contrario: il no dei ticinesi conferma in modo manifesto la tradizione antieuropeista del cantone. La proporzione dei no può però essere letta anche come insofferenza nei confronti della Berna federale, incapace di prestare attenzione – secondo la Lega di ticinesi – alle sorti del Ticino e alla sua specificità.

Il risultato non ha lasciato indifferente la deputazione ticinese che, in occasione della sessione primaverile delle Camere federali del 2 marzo, intende sollevare quella che ormai viene considerata. “la questione ticinese”.

Anche la consigliera federale Doris Leuthard, più volte in Ticino per difendere la causa dei Bilaterali – dei cui benefici usufruisce anche il cantone – ha espresso comprensione per la sensibile situazione del mercato del lavoro ticinese, esposto ad una pressione concorrenziale maggiore, al quale non era abituato.

Forte del bottino di consensi, la Lega dei Ticinesi – promotrice del referendum che ha poi portato al voto di domenia 8 febbraio – passa ora all’attacco, presentando al Governo ticinese un decalogo di misure che deve seguire alla lettera. Un vero e proprio “diktat”.

Altrimenti, minaccia il presidente a vita della Lega Giugliano Bignasca, parte al raccolta delle firme per la revoca del Consiglio di Stato.

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