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Lavoro giovanile, questo sconosciuto in Italia. E in Svizzera?

Giovani donne impegnate nel loro lavoro.
Divari importanti in Europa nell'evoluzione del lavoro giovanile e del numero di inattivi totali. Keystone / Gaetan Bally

Sono impietose le cifre che emergono dall'indagine condotta dall'Ufficio Studi della Confcommercio sul mondo del lavoro giovanile in Italia.

Le conclusioni della ricerca peraltro – che si riferiscono all’arco temporale 2000-2019 – sono destinate inesorabilmente a peggiorare nell’ultimo biennio, caratterizzato dalla pandemia globale che, analogamente alla grave crisi finanziaria partita negli USA nel 2007, ha colpito in modo pronunciato la penisola.

E per questo motivo lo scenario delineato dallo studio della Confcommercio è da considerarsi addirittura ottimistico rispetto a quello attuale.

Il primo dato che balza all’occhio è la scomparsa in vent’anni di 2,5 milioni di occupati tra i 15 e i 34 anni (da 7’688’000 del 2000 ai 5’170’000 del 2019), il che equivale a un 34% in meno, mentre nella popolosa Germania la contrazione è stata molto più contenuta (-235’000 occupati, -1,8%).

E in Svizzera, che si trova proprio in mezzo a questi due paesi? Dalle informazioni che si ricavano spulciando le pubblicazioni dell’Ufficio federale di statistica, non del tutto coincidenti (ma pur sempre assai indicative), si evince che gli occupati nella Confederazione dai 15 ai 24 anni sono calati dell’1,4% (circa 8’000 unita) – da 552’000 a 544’000 – tra il 2002 e 2019 (secondo trimestre), sostanzialmente in linea quindi con il trend del vicino tedesco.

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Due milioni di inattivi totali

Andando poi a scomporre il dato sull’evoluzione degli occupati giovani tra il 2004 e il 2019 si osserva in Italia una vera e propria voragine tra gli indipendenti che si sono dimezzati (-51,4%) mentre i salariati si sono ridotti di un quarto (-26,6%) e non a caso sono sparite 156’272 imprese giovanili (tra il 2011 e il 2020), il cui peso sull’insieme del sistema produttivo è sceso dall’11,4% all’8,9%. Ma sulle conseguenze sul tessuto economico di questo processo torneremo tra breve.

Il tasso degli under 35enni inattivi è cresciuto in Italia dal 40 al 49% (2000-2019) mentre in Germania è rimasto sostanzialmente stabile intorno al 30%. Ma ancora più significativo l’indicazione dei cosiddetti Neet (acronimo di Neither in Employment or in education or Training), le persone giovani (15-29 anni) che non cercano lavoro, né studiano o non stanno svolgendo una formazione professionale allo scopo di impiegarsi, che nel Belpaese hanno infranto la soglia di 2 milioni che costituisce un record in Europa: dal 2006 al 2019 sono passati dal 19,2 al 22,1% (+2,9%) all’interno di questa fascia d’età mentre in Germania il loro numero si è quasi dimezzato da 1’880’000 a 1’018’000 (-45,9%), con una proporzione sul totale di questa fascia d’età del 7,6% (-5,3%).

Ancora una volta in Svizzera, ci dice Eurostat, l’incidenza dei Neet (tra i 15-29enni) è scesa dall’8,0 al 6,2% (-1,8%), mostrando così un andamento più in linea con i tedeschi, mentre la contrazione all’interno della zona euro è stata più tenue (-1,0% dal 13,6 al 12,6%).

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Un’ultima annotazione per completare il quadro statistico che si deduce dalle analisi di EurostatCollegamento esterno sulla disoccupazione giovanile (15-24 anni): negli ultimi dieci anni in Italia è passata dal 27,9 al 29,4% (con una punta del 42,7% nel 2014), in Germania dal 9,8 al 7,4% e in Svizzera dall’8,2 all’8,6% (zona euro dal 21,6 al 17,7%).

Dimezzate le imprese giovanili

L’insieme di queste cifre sono un chiaro indicatore delle difficoltà che pesano sull’occupazione giovanile e l’insieme dell’apparato produttivo del Belpaese. Come anticipato sopra è particolarmente pronunciata l’emorragia di lavoratori autonomi e imprenditori che si affacciano nel mercato. A fronte del dimezzamento delle ditte giovanili negli ultimi due decenni c’è il dato delle 245’000 ricerche di impiego da parte delle imprese, di cui riferisce la Confcommercio, che restano inevase, a testimonianza della mancata connessione tra economia e sistema formativo-educativo.

In aggiunta c’è poi l’inesistenza di un quadro attrattivo e competitivo – non dovuto sicuramente solo al settore pubblico – per la manodopera. Il reddito d’ingresso per i nuovi lavoratori sotto i 30 anni è infatti calato, dal 1977 al 2016, del 7,5% per i dipendenti e addirittura del 41,1% per gli autonomi mentre per la fascia di età superiore ai 50 anni i valori sono sostanzialmente stabili o in aumento (+5,6% per i dipendenti) nello stesso arco temporale.

E questo aspetto è un’ulteriore dimostrazione di come oggi, anche in questo ambito, non siano assolutamente garantiti i giovani – in seguito alle riforme e ai cambiamenti che si sono succeduti nei decenni – nel confronto con le generazioni precedenti. Alla luce delle condizioni-quadro penalizzanti non stupisce quindi l’esodo, soprattutto dei laureati, all’estero: si stima che negli ultimi 10 anni siano stati 345’000 gli espatriati.

La fuga dei cervelli

Un’evoluzione quest’ultima che ricorda un fenomeno, non del tutto analogo e comunque confinato all’interno del paese, che si osserva anche nella Confederazione dove l’emorragia dei “cervelli” contrappone regioni periferiche (zone di montagna e rurali) alle città.

Dalle indagini pubblicate dall’Ufficio federale di statistica emerge infatti che uno studente appenzellese, urano o giurassiano su due non fa ritorno al cantone d’origine una volta ottenuto il diploma. Percentuali inferiori si possono individuare anche nei Grigioni (1 su 3), Neuchâtel e Ticino (uno su quattro) e Vallese (1 su 5).

L’aspetto condiviso riguarda il fatto che le regioni d’origine spendono, direttamente o indirettamente, per la formazione di loro cittadini di cui non potranno beneficiare dal profilo fiscale ed economico mentre le zone urbani si avvantaggiano di collaboratori qualificati che accrescono la loro competitività economica. Di qui le strategie e le politiche locali, non sempre efficaci, per favorire l’insediamento di residenti e imprese e frenare l’impoverimento umano ed economico dei territori.  

In Italia si guarda invece con interesse alle risorse che saranno progressivamente erogate dall’Ue (Recovery Fund) nei prossimi anni, e contenute nel cosiddetto Pnrr, ma, viene sottolineato dagli ambienti economici, è necessario anche un intervento normativo per rilanciare l’occupazione e l’imprenditoria giovanile attraverso riforme della fiscalità e della burocrazia e politiche mirate in tema di formazione, logistica e microcriminalità.           

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