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La voce forte dei giovani tibetani

La protesta dell'attivista svizzera di origine tibetana Pema Dolkar* a Olimpia ha avuto echi mediatici in tutto il mondo. Reuters

Gli attivisti tibetani si sono mobilitati in vista dei giochi olimpici di Pechino e hanno catturato con le loro dimostrazioni l'attenzione dei media di tutto il globo. Schierati in prima linea vi sono le giovani generazioni della diaspora.

Gli attivisti tibetani si sono mobilitati in vista dei giochi olimpici di Pechino e hanno catturato con le loro dimostrazioni l’attenzione dei media di tutto il globo. Schierati in prima linea vi sono i rappresentanti delle giovani generazioni di tibetani in esilio.

L’immagine di Pema Dolkar* con il volto imbrattato di rosso, che si getta davanti a un corridore durante il percorso della fiaccola a Olimpia nel marzo del 2008 gridando «Stop Killing Tibet» ha fatto il giro del mondo.

Sette anni or sono, a Mosca, l’attrice tibetana Yangzom Brauen protestò contro l’assegnazione alla Cina dei Giochi olimpici del 2008: la donna fu immediatamente arrestata dalla polizia russa. Anche in quell’occasione, le testimonianze diffuse dai media ebbero ampio risalto.

Sia Pema Dolkar* sia Yangzom Brauen sono anche cittadine elvetiche: nella Confederazione risiede infatti la maggiore comunità – circa 4’000 persone – di espatriati tibetani al di fuori dell’Asia.

«La Cina ha paura»

Anche Tenzin Losinger-Namling, 22enne studente di pubblicistica, era a Olimpia nel mese di marzo: la ragazza – tibetana di seconda generazione residente a Berna – ha partecipato alla contromanifestazione parallela al passaggio della fiaccola, organizzata per denunciare la violazione dei diritti umani in Cina e sostenere l’indipendenza del Tibet.

Anche lei, come Yangzom Brauen, fa parte dell’Associazione dei giovani tibetani in Europa. Il movimento, che attualmente conta circa 350 membri, fu fondato a Zurigo nel 1970 in nome della «responsabilità morale verso il proprio popolo e il proprio paese».

Secondo Tenzin Losinger-Namling, la trasferta della piccola delegazione di attivisti tibetani partita dalla Svizzera alla volta della Grecia è stata seguita nei minimi dettagli dalle forze di sicurezza cinesi: «Sapevano tutto su di noi», afferma. La ragazza è inoltre convinta che pure la posta elettronica sia stata controllata e segnala l’utilizzo di virus informatici.

Ciononostante, la sorveglianza da parte cinese non ha affatto spaventato Tenzin Losinger-Namling, motivandola invece ancora di più: «Ciò dimostra che il governo cinese ha paura di noi, e questo è un fatto positivo».

Il Dalai Lama sotto pressione

Tenzin Losinger-Namling prova una forte collera nei confronti della politica cinese. Anche se non si è mai recata in Tibet, i suoi legami con il paese sono molto forti. A suo parere, il governo di Pechino si comporta in maniera «ipocrita» e molte persone si lasciano abbagliare.

Secondo la giovane attivista, non è sufficiente dimostrare simpatia nei confronti della causa tibetana: «È importante fare qualcosa!», afferma. Dove si situa, per lei, il confine dell’attivismo politico? «Mi spingerei molto in là», risponde, sottolineando comunque che la violenza non entra in linea di conto.

A differenza dei loro connazionali residenti in patria, i tibetani che abitano in Svizzera possono esprimersi liberamente: «Al massimo qui finiamo in prigione», commenta laconicamente.

Questo atteggiamento provocatorio sembra essere in antitesi con la via indicata dal Dalai Lama, la massima autorità spirituale tibetana, che predica il dialogo quale mezzo per giungere all’autonomia culturale.

Dal canto suo, l’Associazione dei giovani tibetani chiede la libertà per il Tibet. Questa differenza di vedute non disturba tuttavia Tenzin Losinger-Namling: «Rispetto a noi, il Dalai Lama è soggetto a pressioni più forti».

L’importanza dell’integrazione

«Il movimento in favore del Tibet ha una nuova dinamica: i problemi vengono affrontati in maniera creativa», spiega Losinger-Namling. Questa modalità d’azione – aggiunge – non è legata a differenze generazionali, bensì alla conoscenza della lingua e al grado di integrazione.

Tra i tibetani residenti nella Confederazione – soprattutto nella regione di Zurigo – vi sono infatti parecchie persone, spesso anziane, che non sono in grado di esprimersi in tedesco: per loro è quindi assai difficile rivolgersi all’opinione pubblica.

Coinvolgere i giovani

«Le azioni dei giovani sono più efficaci a livello mediatico, ma gli obiettivi non sono comunque mutati nel corso degli anni», afferma Dolkar Gyaltag, la zia di Tenzing. La 59enne è cresciuta nel villaggio Pestalozzi di Trogen insieme ad altri figli di rifugiati tibetani.

A suo parere, le nuove generazioni – abituate alla cultura occidentale – sanno sfruttare meglio i media: «Mentre le generazioni più anziane pregavano l’opinione pubblica occidentale di occuparsi della questione tibetana, i giovani lo pretendono».

Fintanto che non si ricorre alla violenza, le generazioni più anziane non hanno alcun problema con le azioni dei giovani attivisti, sottolinea Dolkar Gyaltag.

Le idee non mancano

Gli attivisti tibetani non difettano certo di proposte provocatorie, come la campagna intitolata «Ich couche nicht» («io non obbedisco»). Lo slogan – proiettato su Palazzo federale l’8 luglio, ossia un mese prima dell’inizio delle Olimpiadi – è associato a una fotografia del presidente della Confederazione Pascal Couchepin con la bocca e gli occhi coperti da una fascia nera.

La popolazione elvetica viene invitata a boicottare, non seguendola in tivù, la cerimonia di apertura. La campagna comprenderà anche uno spot televisivo e un concerto di solidarietà sulla Piazza federale.

Lo stesso luogo era già stato teatro di proteste nel 1999: in occasione della visita nella Confederazione del presidente cinese Jiang Zemin, gli attivisti tibetani lo avevano contestato proprio al suo arrivo nella piazza, esponendo dal tetto di un edificio una bandiera tibetana. L’azione aveva suscitato l’ira del capo di Stato, che aveva aspramente criticato le autorità elvetiche.

swissinfo, Corinne Buchser
(traduzione e adattamento: Andrea Clementi)

* nome modificato dalla redazione

La Cina intende proseguire il dialogo con i rappresentanti del Dalai Lama soltanto a determinate condizioni.

In particolare, il governo cinese esige che la massima autorità spirituale tibetana sostenga incondizionatamente le Olimpiadi di Pechino (8-24 agosto 2008), rinunci a chiedere l’indipendenza del Tibet e non sostenga «attività violente e terroristiche da parte di gruppi tibetani».

Dal canto suo, il Dalai Lama ha più volte affermato la sua volontà di non chiedere l’indipendenza del Tibet, l’opposizione alla violenza e il sostegno alle Olimpiadi.

Il 7 ottobre 1950, un anno dopo la proclamazione della Repubblica popolare cinese da parte di Mao Zedong, 40’000 soldati dell’esercito di liberazione popolare invase il Tibet.

La rivolta popolare venne sanguinosamente repressa, e nel 1959 il Dalai Lama fu costretto a fuggire dal paese alla volta dell’India; circa 120’000 tibetani seguirono a loro volta la via dell’esilio.

I primi gruppi di rifugiati tibetani giunsero in Svizzera nell’autunno del 1960: visto il contesto della guerra fredda, il governo elvetico decise nel 1963 di accogliere un migliaio di tibetani.

Molti tibetani vivono nella regione di Zurigo poiché nel 1960 i responsabili della fabbrica di pentole Kuhn, a Rikon, avevano assunto e alloggiato numerosi rifugiati.

Sempre nel cantone di Zurigo, il monastero di Rikon, si è guadagnato una reputazione mondiale grazie al suo Istituto di alti studi tibetani e alla sua ricca biblioteca.

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