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La lunga marcia dei diritti umani in Cina

La questione tibetana, qui un pellegrino a Lhasa, è molto sentita in Svizzera swissinfo.ch

Tortura, pena di morte, libertà di espressione e questione tibetana sono da quindici anni al centro del dialogo sui diritti umani tra Berna e Pechino.

La Svizzera non nasconde che i risultati concreti faticano a manifestarsi, sebbene la strada del dialogo sia quella giusta. Una politica dei «piccoli passi» che non manca di suscitare critiche.

L’annuncio è apparso a fine ottobre sulla prima pagina del quotidiano cinese China Daily: «La riforma della pena di morte dà una spinta ai diritti umani».

Basta spostare lo sguardo sulle prime righe dell’articolo per accorgersi che la giustizia cinese – tra le più attive sul fronte delle esecuzioni capitali – non è però intenzionata ad un cambio di rotta.

Il «grande passo verso il rispetto dei diritti umani» si riduce ad una modifica legislativa che affida alla sola Corte suprema del Popolo (e quindi non più ai tribunali locali) il diritto di approvare le sentenze di morte emesse sul territorio.

La notizia non è probabilmente sfuggita alla delegazione elvetica guidata dalla ministra degli esteri Micheline Calmy-Rey, che proprio in quel periodo si trovava in visita nel paese asiatico. L’esecuzione delle pene è uno dei temi centrali che figurano nel dialogo politico sui diritti umani che Berna e Pechino conducono dal 1991.

Pena di morte e diritti umani nell’economia

«La Svizzera è diventata per la Cina un partner privilegiato grazie alla buona reputazione in materia di diritti umani e alla credibilità della sua azione», indica a swissinfo Dante Martinelli, ambasciatore svizzero a Pechino.

I temi principali – tortura, pena di morte, libertà di opinione e di religione, diritti delle minoranze (soprattutto tibetani) – sono trattati durante gli incontri organizzati periodicamente tra delegazioni dei due paesi.

L’ultimo in ordine di tempo si è svolto nel mese di marzo in Svizzera. In «un clima aperto e costruttivo – scrive il Dipartimento federale degli affari esteri (DFAE) – si è discusso in particolare della dimensione dei diritti umani nell’economia».

Per saperne di più sullo stato attuale dei diritti fondamentali in Cina, ci rivolgiamo alla sezione elvetica di Amnesty International (AI). «La questione più grave è la pena di morte. Secondo numerose fonti, le esecuzioni sarebbero 8-10mila all’anno, ciò che fa della Cina il paese che più condanna a morte nel mondo», osserva la portavoce Manon Schick.

«C’è poi la repressione su internet, la persecuzione dei difensori dei diritti umani, la diffusione della tortura, la violenza contro le donne e la repressione nelle regioni autonome (Tibet, Xinjiang)», aggiunge.

Un cambiamento di sensibilità

Non mancano quindi gli spunti nel dialogo tra Svizzera e Cina. Dopo quindici anni di colloqui, scambi di periti e corsi di formazione sembrano tuttavia mancare i risultati concreti. Lo stesso DFAE ammette che la situazione in Cina continua ad essere preoccupante e che il dialogo – seppur valido – non ha prodotto cambiamenti repentini.

Particolarmente critico è Antoine Kernen, dottore in scienze politiche all’Istituto universitario di studi sullo sviluppo di Losanna. «Sono state organizzate delle visite di prigioni, ciò che è positivo, ma in sostanza le due parti si limitano ad un dialogo di buone intenzioni. Non c’è alcun impatto concreto sulla società».

Anche Dante Martinelli riconosce che i risultati tangibili sono difficili da individuare. I miglioramenti però non mancano. «I progressi relativi constatati nella sensibilità ai diritti umani sono la conseguenza non solo dell’apertura della società cinese e dell’azione di organizzazioni internazionali, ma anche dei dialoghi bilaterali».

«Abbiamo poi rilevato che i temi trattati nel dialogo con la Svizzera si sono ampliati e che gli interlocutori si sono diversificati», ci dice l’ambasciatore.

Durante l’incontro di marzo – segnala il DFAE in una nota – la delegazione cinese era composta di esperti nel settore della manodopera e delle imprese, dei diritti umani, della giustizia e della sicurezza.

Altro passo avanti: l’ambasciata svizzera di Pechino ha creato un posto a tempo pieno per occuparsi esclusivamente del dialogo.

Scandinavi più efficaci

Anche Canada, Olanda, Regno Unito, Germania, Norvegia o ancora Stati Uniti ed Unione europea intrattengono con Pechino un dialogo sui diritti umani.

Al tavolo delle discussioni, i paesi del Nord sono agli occhi di Antoine Kernen molto più efficaci della Svizzera. «Il blocco scandinavo non intende influenzare l’elite cinese, ma sostiene al contrario con successo azioni concrete, come nel campo dei diritti dei contadini».

«La Svizzera è invece rimasta ad un livello politico e diplomatico», commenta.

AI non vuole esprimere valutazioni sui risultati raggiunti da Berna. Il dialogo, avverte ad ogni modo, non deve servire per camuffare un’atteggiamento passivo. «Se il dialogo rappresenta una scusa per non denunciare apertamente gli abusi, allora serve a poco», segnala Manon Schick.

«Il dialogo è una politica dei piccoli passi. Ma per ottenere miglioramenti concreti in Cina ci vorrebbero dei passi molto più grandi», conclude.

swissinfo, Luigi Jorio

La questione dei diritti umani in Cina è particolarmente sentita in Svizzera, dove risiede la comunità di esuli tibetani più grande d’Europa (3’500 persone). Essa ha chiesto a più riprese al governo elvetico di sensibilizzare maggiormente la controparte cinese.

Nonostante la questione tibetana sia al centro del dialogo sui diritti umani tra Berna e Pechino, il numero di richiedenti l’asilo in provenienza dalla regione himalayana ha registrato quest’anno in Svizzera una notevole impennata.

Nei primi nove mesi del 2006, indica l’Ufficio federale della migrazione (UFM), sono stati 367 i cittadini cinesi ad aver presentato una domanda d’asilo (+500% rispetto allo stesso periodo del 2005). 320 riguardano persone di etnia tibetana.

L’UFM spiega parte di questo aumento con l’introduzione di una nuova prassi per il riconoscimento dello statuto di rifugiato (numerose richieste sono venute da tibetani già residenti in Svizzera, che non vogliono ritornare in Cina per paura di ripercussioni) e con gli effetti del ricongiungimento famigliare.

Cina e Svizzera conducono un dialogo sui diritti umani dal 1991.
Le delegazioni dei due paesi si sono incontrate in nove occasioni.
L’Unione europea e una decina di paesi (tra cui Germania, Regno Unito, Norvegia e Stati Uniti) sono impegnati in dialoghi simili con Pechino.

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