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La famiglia afghana che mette in discussione Dublino

Il tribunale per i diritti dell'uomo di Strasburgo Keystone

di Aldo Sofia

Non sarà certo una famiglia di migranti afghani a silurare gli accordi di Dublino sull’accoglienza dei richiedenti l’asilo in Europa. Ma sicuramente la vicenda dei Tarakhel (marito, moglie, e sei figli) segnala la fragilità e le incongruenze di quegli accordi, e conferma più in generale la mancanza di una strategia unitaria a livello continentale.

Vicenda, quella dei Tarakhel, quasi banale nella sua drammaticità. La fuga dall’Afghanistan in guerra, l’approdo in Italia, la vita difficile nel centro di prima accoglienza a Bari-Pelese (costruito sulle piste di un aeroporto militare dismesso, nemmeno uno dei peggiori, secondo un rapporto dell’organizzazione Fortress Europe), un’altra fuga verso l’Austria, infine l’approdo a Losanna. Ultimo capitolo: la Corte del Consiglio d’Europa che blocca l’espulsione della famiglia dalla Svizzera verso l’Italia, paese di “primo approdo”. Motivazione della Corte: l’obbligo, per Berna, di verificare preventivamente che la famiglia Tarakhel sia sistemata “adeguatamente” nella Penisola. Una garanzia non data, viste le condizioni in cui vivono i richiedenti d’asilo in Italia.

Più che una bacchettata all’Ufficio federale della migrazione (la cui procedura é stata corretta), la sentenza di Strasburgo é dunque innanzitutto un atto di denuncia nei confronti di Roma. In Italia troppi migranti in attesa di risposta sulla richiesta di asilo vivono infatti in condizioni inaccettabili, spesso abbandonati a sé stessi: appartamenti fatiscenti, e soprattutto strutture di accoglienza sovraffollate: la promiscuità, le violenze, le rivolte, gli scontri fra gli stessi asilanti. Situazioni in parte certificate anche da rapporti ONU e dello stesso Consiglio d’Europa.

“Un disastro completo”, é la denuncia del professor Fulvio Vassalli docente di Diritto d’asilo all’Università di Palermo”. Il quale, riferendosi in particolare alla situazione emergenziale in Sicilia, precisa: “Non c’é un programma regionale, non ci sono le risorse, e non c’é volontà politica”. E vi sono denunce secondo cui taluni centri di accoglienza (che incassano 34,60 euro al giorno per ospite) alimentano una sorta di “business del rifugiato”.

Bisogna riconoscere che l’Italia, anche con l’operazione “Mare Nostrum” nel canale di Sicilia, ha dovuto affrontare praticamente da sola il massiccio flusso di migranti in fuga dai paesi nordafricani e medio-orientali feriti da guerre e dittature. Ma é anche vero che, quasi a compensare questo suo impegno umanitario, Roma ha accentuato il mancato rispetto degli accordi di Dublino, sottoscritti anche dalla Svizzera: accordi in base ai quali i richiedenti l’asilo devono essere registrati nel paese di prima approdo, in modo da evitare domande multiple nei 32 Stati partecipanti.

Roma accoglie i richiedenti col contagocce, noni li registra puntualmente, consente a molti di fuggire facilmente della Penisola, e tentare la sorte nei Paesi del Nord. Vi sono nazioni europee, come la Gran Bretagna e la Francia, che accolgono un numero assai superiore di richieste: da 50.000 a 60.000 all’anno. L’Italia nicchia anche quando si tratta di “riprendersi” gli asilanti, come recentemente denunciato sia dalla Confederazione sia dalla Germania. Così, per esempio, nel 2014 Roma ha risposto positivamente soltanto per un terzo dei casi segnalati dalla Svizzera: 2.195 rispetto a un totale di 7.784 casi.

Ora, la sentenza di Strasburgo ufficializza una situazione nota da tempo. E, a quindici anni dalla sua entrata in vigore (per la Svizzera dal 1908), fragilizza l’intesa di Dublino. Per l’Europa urge una revisione della politica migratoria. Necessità sempre più urgente. Ma missione “quasi impossibile”. Probabilmente anche per la nuova Commissione Junker.

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