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Mettersi in scena per superare l’omertà

"Bisogna mostrare le facce dei boss perché la 'ndrangheta non è un'entità astratta ma è fatta di nomi e cognomi. Di volti". Per questo il noto giornalista Klaus Davi ha deciso di inseguire, con telecamera e microfono, i capi più temuti delle cosche calabresi.

Lo incontriamo in un albergo in zona Tiburtina, a Roma, a poche ore dalla diretta di Non è l’Arena, il talk che Massimo Giletti conduce la domenica su La7 “faccio parte della sua squadra. Massimo è un uomo intelligente e piace al pubblico. Lavoro benissimo con lui: siamo stati i primi a parlare di ‘ndrangheta in un programma pomeridiano che faceva il picco di ascolti. Abbiamo denunciato i casi di malasanità agli ospedali Riuniti di Reggio, casi in cui era coinvolto un medico ginecologo nipote di Giorgio De Stefano, cugino dei capi storici della cosca De Stefano. E di boss e ‘ndrangheta continueremo a parlare anche in questo nuovo programma”. 

“Racconto gli stili di vita”

Una promessa che sembra quasi una minaccia per chi ha fatto del silenzio e dell’omertà la sua forza: “Non racconto le vicende giudiziarie ma gli stili di vita dei boss. Racconto le loro reazioni davanti a questioni delicate come la pedofilia, l’omosessualità o il tradimento”.

Domande imbarazzanti che rivelano le debolezze dei capi, e commenti irrispettosi come quello indirizzato a Paolo Rosario De Stefano e al suo improponibile gilet verde: “Lo ha aspettato per ore fuori dalla caserma dei carabinieri di Archi dove ha l’obbligo di recarsi per firmare… è arrivato circondato da bambini e con un gilet verde che ho apprezzato”. Klaus sorride. Anche davanti all’ultima lettera di minacce ricevuta lo scorso 23 novembre. “Una lettera in stampatello con insulti rivolti a me, a don Luigi Ciotti e a Tiberio Bentivoglio, imprenditore testimone di giustizia di Reggio Calabria. La missiva fa riferimento alla scomparsa di Paolo Schimizzi, un caso che seguo da anni”. Era infatti il dicembre 2015 quando un furgone pubblicitario con la scritta “dov’è finito Paolo Schimizzi?” girò per le vie di Reggio. A organizzare la réclame fu il massmediologo e giornalista svizzero che col suo impeccabile gessato si mise ad inseguire familiari di boss e a riflettere a voce alta, davanti a una telecamera, sulla strana scomparsa del reggente del clan Tegano postando tutto, senza tagli, su Internet.

Nei suoi video, Davi ha ripreso diversi boss passati per l’elenco dei latitanti più pericolosi: “I Mancuso, i Labate, i Tegano, i De Stefano…”. Tutta gente con un DNA che istintivamente impedisce loro di farsi fotografare. Intoccabili e inavvicinabili, prima. “Senza panza e presenza”, come si usa dire, si erano mostrati solo attraverso gli omicidi e le sentenze. Con Klaus quegli uomini hanno perso la loro invisibilità. “Per questo sono stato minacciato, picchiato… perché sono andato a casa loro, nel loro territorio. Perché mi sono permesso di riprenderli”.

Video girati davanti a una caserma, davanti a porte e ville prima inaccessibili. Per le strade di una Calabria silenziosa e omertosa “ma bella. Perché la Calabria ha un grande fascino e io mi sono innamorato della sua cultura tribale che non è una cultura mafiosa ma una cultura fondata su riti, su regole. Sulla famiglia”.

tvsvizzera: E in Svizzera ci sono cosche della ‘ndrangheta?

KD: A Frauenfeld la ‘ndrangheta è operativa da circa 40 anni. In Svizzera ci sono cosche collegate direttamente con le famiglie di Vibo Valentia e di Reggio Calabria. I Papalia hanno fatto importanti investimenti a Lugano… ci sono risultanze che il clan De Stefano stia facendo spostamenti di capitali in territorio elvetico. Le autorità stanno prendendo coscienza del problema: sanno che la Svizzera è uno degli obiettivi su cui i clan puntano, appoggiandosi su strutture locali.

tvsvizzera: Perché è passato dalla comunicazione al tour contro la ‘ndrangheta? 

KD: “La comunicazione resta il mio lavoro, sono un consulente e lavoro per aziende italiane, istituzioni e multinazionali. Resto un comunicatore, come interessi e professione. Ma sono anche un giornalista. E ho deciso di occuparmi di ‘ndrangheta dopo la mia intervista a Giancarlo Giusti, il magistrato calabrese processato con l’accusa di essere stato corrotto dalle cosche e per questo condannato a 4 anni di carcere. Lo intervistai nel 2015 e quella fu l’ultima intervista che rilasciò: si tolse la vita un mese dopo. Avevo avuto con lui una fitta corrispondenza e il suo suicidio mi portò a riflettere sulla potenza di questa associazione mafiosa di cui peraltro c’è una forte presenza anche al nord. Mi sono chiesto il perché non venisse raccontata.  E ho deciso di provarci io: è una sfida che ho lanciato a me stesso.

tvsvizzera: Brillante e pluripremiato, eppure i suoi servizi non piacciono a tutti… Alcuni la criticano per la sua tendenza a mettersi in scena… Questo suo essere in primo piano non rischia di togliere valore al suo lavoro?

KD: Intanto non lavoro da solo ma ho accanto il mio operatore e coautore Alberto Micelotta. Comunque le critiche sono legittime e le preferisco al silenzio. Perché è nel silenzio che la ‘ndrangheta si muove, come tutte le mafie. Se il ‘mettersi in scena’ serve a superare il muro dell’omertà sono contento di farlo.

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