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La crisi di Schengen, e l’interesse svizzero

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di Aldo Sofia

Davvero pochi sono gli europei che sanno dove si trovi Schengen, la piccola località lussemburghese sulle rive del fiume Mosella. Ma ormai praticamente tutti sanno cosa significhi quella parola: in sostanza, il principio della libera circolazione sancita dall’UE nel 1985, ed a cui anche la Svizzera ha aderito (approvazione dell’Assemblea federale nel dicembre 2004, ed entrata in vigore alla fine del 2008). Schengen è anche il fratello maggiore dei successivi accordi di Dublino, che regolano, o dovrebbero regolare, le disposizioni sulle richieste d’asilo.

Entrambi, ormai, sono messi in discussione. Ed il detonatore è stata l’emergenza rifugiati. In realtà quel principio di frontiere aperte vacilla da tempo. Almeno dall’estate 2005, quando Francia e Olanda bocciarono, via referendum, la cosiddetta Costituzione europea: fra gli argomenti che determinarono quella ricusa vi furono anche le preoccupazioni per le conseguenze della libera circolazione. Ricordate il “plombier polonais”, l’idraulico polacco? Fu il protagonista in negativo di quelle campagne: paura di perdere il posto di lavoro a favore degli stranieri, maggiori oneri assistenziali, pericolo di spudorati dumping salariali. Pensate all’odierno dibattito ticinese…

Dopo quella sonora bocciatura, l’UE cercò rimedio attraverso i vari voti parlamentari (non proprio un bell’esempio di democrazia), ma non bastarono le cifre della crescita economica per rendere popolare la libera circolazione, soprattutto nelle fasce economicamente più deboli. Fino alla crisi odierna. E al dibattito sulla necessaria riforma di Schengen, partendo dalla convenzione di Dublino, sua fondamentale appendice.

Ma si tratta di un legame organico (Schengen+Dublino) che genera anche confusione. Una cosa è la libera circolazione, altra cosa la necessità di arrivare in tempi rapidi a una concezione comune del diritto all’asilo. Eppure tutto si mescola. Così, la Gran Bretagna (che in realtà nemmeno fa parte…dell’area Schengen) chiede che le frontiere vengano chiuse a tutti coloro che non hanno un lavoro nel Regno Unito, anche ai cittadini dell’UE. Londra deve far fronte a un flusso imponente di lavoratori dai paesi orientali dell’Unione; ma sono tantissimi anche i giovani italiani e francesi disoccupati che hanno attraversato la Manica per trovare un impiego. Stop anche per loro.

E qui si arriva al nodo principale. Polonia, Cekia, Ungheria, Slovacchia sono i paesi comunitari più attaccati a Schengen, visto che la libera circolazione ha garantito una parte del loro decollo economico. Ma sono al contempo anche i più chiusi nei confronti dell’accoglienza ai migranti provenienti dal Grande Medio Oriente e dall’Africa. Ed è proprio su questa contraddizione che Angela Merkel ha puntato l’indice, ammonendo: Schengen non reggerà se l’Europa dell’Est non si assumerà la sua parte di fardello nell’accoglienza dei migranti.

E la Svizzera? Il voto del 9 febbraio “contro l’immigrazione di massa” in buona sostanza è il rifiuto di Schengen. Il governo federale ha poco più di due anni per l’applicazione dell’esito referndario, tentando di salvare il resto dei bilaterali. Impossibile, ripete Bruxelles. Ora nella Confederazione molti si chiedono: e se dovesse essere la stessa UE a risolvere il dilemma elvetico? Riformando Schengen l’Europa comunitaria potrebbe introdurre al suo interno il meccanismo delle quote? Oggi la Svizzera ha probabilmente qualche alleato in più. Ma attenti alle illusioni: una riforma degli accordi di Dublino è pressoché sicura; non certo quella sulla libera circolazione interna. Che rimane l’essenza stessa del pur vacillante progetto europeo.

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