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La crisi dei migranti e le strategie demografiche degli Stati europei

di Laura Canali

di Dario Fabbri (Limes)

L’afflusso di migranti verso il Vecchio Continente sta palesando le diverse strategie demografiche delle nazioni europee. Con governi soprattutto preoccupati dalle conseguenze culturali del fenomeno; altri impossibilitati per ragioni congiunturali e politiche a compiere alcuna scelta; altri ancora pronti a sfruttare i nuovi arrivati per puntellare la propria economia. In barba all’appello del presidente della Commissione Jean-Claude Junker che ha chiesto agli Stati membri di accogliere appena 160 mila migranti totali secondo la taglia della loro popolazione, il pil pro capite, il tasso di disoccupazione e le richieste d’asilo già ricevute, questi appaiono intenzionati a muoversi esclusivamente in base ai loro interessi di breve o lungo periodo. Nodo della questione è il bilanciamento dei benefici demografici con il rischio di peste comunitaria e la rabbiosa risposta dell’opinione pubblica. Secondo le previsioni ufficiali, la popolazione europea – con le notevoli eccezioni di Francia e Regno Unito – raggiungerà il picco intorno alla metà del secolo per poi declinare inesorabilmente. Sicché, in assenza di un’improbabile inversione dei tassi di fertilità e natalità, soltanto l’arrivo degli immigrati può garantire il mantenimento dell’output produttivo e il livello di welfare offerto ai cittadini. Se non fosse che in Europa l’assimilazione dello straniero, specie se di religione musulmana, è da sempre impresa assai complessa.

Così, a dispetto dell’emergenza umanitaria che si registra dal Maghreb al Medioriente, numerose cancellerie preferiscono chiudere anziché aprire allo straniero. Anzitutto i paesi baltici e mitteleuropei. Data la bassa fertilità, nazioni quali Polonia, Repubblica Ceca o Slovacchia nei prossimi quarant’anni perderanno un’ampia porzione della loro popolazione. Eppure, nonostante le buone condizioni economiche, i governi in questione continuano a respingere ogni afflusso esogeno. Stando ai loro calcoli, gli immigrati, soprattutto musulmani, non riuscirebbero ad integrarsi oppure – ancora peggio – modificherebbero per sempre il tessuto culturale della nazione. Nelle parole del portavoce del governo di Bratislava, Ivan Netik, gli islamici non potrebbero mai vivere in Slovacchia perché «qui non esistono moschee». Ancor più stretto il margine di manovra per Italia, Spagna o Grecia che, sebbene bisognose di migranti, a causa della dilagante disoccupazione non sarebbero in grado di giustificarne l’arrivo neppure se l’assorbimento si rivelasse automatico.

Diverso il discorso per Parigi e Londra. Entro il 2060 Francia e Gran Bretagna saranno le nazioni più popolose del continente e, benché le loro economie producano perfomances alquanto dissimili, in questa fase preferiscono rinunciare ai migranti. Intenzionati ad accettare un contingente di rifugiati pressoché identico (rispettivamente appena 24 mila e 20 mila profughi), Hollande e Cameron provano a lavarsi la coscienza promettendo di muovere guerra allo Stato islamico, a loro avviso causa unica del esodo mediorientale.

Più significativo, infine, il caso della Germania, principale potenza europea che nella congiuntura attuale pare aver finalmente manifestato un’insospettabile profondità strategica. Condannata a perdere circa dieci milioni di abitanti, nonché il 25% della forza lavoro entro la metà del secolo, Berlino intende stemperare il drammatico sviluppo attraverso l’apertura ai profughi. Ben 800 mila nel 2015 e almeno 500 mila nei prossimi anni. Da sempre gli strateghi tedeschi hanno l’esigenza di supportare la qualità del welfare nazionale e negli ultimi anni hanno individuato nel bulimico surplus commerciale, principale origine degli squilibri interni all’Eurozona, lo strumento utile a sopperire nel lungo periodo alla diminuzione e all’invecchiamento della popolazione. La svolta della Merkel potrebbe dunque segnalare anche il timore di un possibile rallentamento dell’export teutonico.

Approcci asimmetrici applicati al flusso migratorio che, oltre a mostrare le contrastanti necessità demografiche degli Stati europei, paiono destinati ad accelerare lo sfaldamento dell’architettura comunitaria.

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