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La “tratta delle bionde” degli spalloni d’un tempo

Le bricolle dei contrabbandieri potevano pesare fino a una trentina di chili © RDB/Schleiniger

Il maxi processo sul traffico di sigarette, a Bellinzona, ha riportato in primo piano il fenomeno del contrabbando, da sempre praticato con intensità lungo la frontiera tra Italia e Svizzera. Da qualche tempo il fenomeno ha però assunto connotati criminali e perso qualsiasi radicamento sociale.

Il maxi processo in corso al Tribunale penale di Bellinzona sul riciclaggio di denaro sporco legato al contrabbando di sigarette, che vede alla sbarra anche due cittadini svizzeri, sollecita una riflessione sulla tradizione del contrabbando alla frontiera tra Svizzera e Italia, dove questa attività è stata esercitata per lungo tempo con grande intensità, spesso in modo professionale.

Lo Stato italiano ha da sempre attuato una politica economica piuttosto protezionistica con monopoli e dazi elevati. Il divario rispetto ai regimi fiscali e doganali svizzeri, meno onerosi, determinava rendite differenziali su alcuni beni, come zucchero, caffè e soprattutto tabacco. Le opportunità di guadagno legate all’«effetto frontiera» spinsero una moltitudine di residenti dei villaggi italiani di confine a trasportare a spalla dalla Svizzera lungo i faticosi sentieri montani del contrabbando ingenti quantità di merci.

La morfologia dei territori di frontiera, frastagliati e solcati da numerose valli, rendeva l’opera di vigilanza delle guardie di finanza assai difficoltosa e la «ramina», la rete metallica che scorre lungo il confine, poté solo parzialmente arginare i traffici illeciti.

La tolleranza elvetica

Il contrabbando verso l’Italia non recava alcun danno all’erario della Confederazione. Le autorità svizzere non avevano pertanto alcun interesse a perseguire questa attività. Al contrario: il contrabbando costituiva uno sbocco commerciale supplementare di tutto rispetto che favoriva l’economia locale delle regioni di confine. Le autorità svizzere hanno dunque sempre ampiamente tollerato il viavai dei contrabbandieri. Sul versante svizzero gli spalloni avevano solo l’obbligo di annunciarsi e presentare le merci al più vicino posto doganale, dopodiché potevano proseguire indisturbati verso l’Italia.

Nel secondo dopoguerra, quando si sviluppò la «tratta delle bionde», sorsero nelle regioni di confine decine di aziende specializzate a rifornire i numerosi spalloni italiani. Il 78enne Fernando Bossi operò in questo mercato fin dal 1948, divenendo uno degli imprenditori del contrabbando più conosciuti e importanti del Mendrisiotto, con una nutrita rete di clienti in Italia. «Ancora oggi – racconta Bossi – quando attraverso i villaggi lungo il lago di Como mi trattano come se arrivasse il papa». Da quelle parti, molti hanno costruito la propria casa con i proventi del contrabbando.

Un mercato parallelo

Per il contrabbando delle «bionde» si sviluppò in Svizzera un vero e proprio mercato parallelo estremamente articolato. I fabbricanti svizzeri confezionavano i pacchetti destinati all’esportazione di frodo in stecche da 25 pezzi al posto di quelle classiche da 10 per ridurre al minimo il peso dell’imballaggio, e poi le avvolgevano in carta catramata per proteggerle dalle intemperie e dal sudore dello spallone.

Con queste stecche speciali i fornitori confezionavano le bricolle, sorta di zaini in sacco di iuta che servivano per il trasporto della merce. Il loro peso era di circa 25-30 kg. «Le mie bricolle le conoscevano tutti perché erano confezionate a regola d’arte e durante il trasporto la merce non si danneggiava quasi mai: io facevo pagare 500 lire in più ma garantivo professionalità», ricorda Fernando Bossi.

Per evitare lo scalpiccio e non lasciare tracce gli spalloni calzavano appositi peduli pure confezionati con tela di sacco di iuta. Altro attrezzo dell’equipaggiamento dello spallone era la roncola, un taglientissimo coltello arcuato tenuto sempre a portata di mano, che serviva per recidere rapidamente le spalline della bricolla e darsi alla fuga abbandonando il carico se intercettati dai finanzieri.

Il radicamento sociale del contrabbando

Il finanziere era percepito come l’emanazione dell’avversato Governo centrale di Roma e lo spallone era spesso spinto a dedicarsi al contrabbando dal bisogno materiale. Per queste ragioni il contrabbando d’una volta, quello fatto di faticose camminate piegati sotto peso della bricolla, non ha mai suscitato la riprovazione morale delle popolazioni di frontiera, né in Svizzera né in Italia. Anzi, lo spallone era ammirato per il suo coraggio e la sua intraprendenza. Per gli adolescenti il primo viaggio di frodo in Svizzera era una sorta di rito iniziatico.

Fernando Bossi racconta senza alcuna reticenza e con grande orgoglio della sua attività di fornitore dei contrabbandieri. Ha perfino allestito in uno scantinato del magazzino dismesso dove conservava le stecche delle «bionde» una sorta di piccolo museo del contrabbando con numerosi documenti, reperti di vario tipo e diverse bricolle confezionate con la perizia d’un tempo.

La fine dell’epopea del contrabbando

La «tratta delle bionde» degli spalloni durò fino al 1974, quando le condizioni economiche generali italiane fecero venir meno i margini di guadagno sulle merci.

L’epopea del contrabbando è stata offuscata dalla progressiva trasformazione fenomeno, con un’accentuazione dei tratti delinquenziali e la rimozione del radicamento sociale. Al giorno d’oggi, le cronache giudiziarie sul contrabbando riferiscono su vicende di riciclaggio di fiumi di denaro provenienti da ambienti del crimine organizzato. Ma questa è tutt’altra storia. Materia per i tribunali penali.

Adriano Bazzocco, swissinfo.ch

Sul finire dell’Ottocento le autorità italiane introdussero un nuovo ritrovato nella lotta al contrabbando. Nel 1894 fu posato lungo la frontiera tra Rodero e Bizzarrone il primo tratto di rete metallica.

Negli anni successivi la «ramina», come viene comunemente denominata dagli abitanti delle regioni di frontiera, si sviluppò un po’ lungo tutta la frontiera.

In origine la «ramina» era munita di un singolare sistema di campanelli che allertavano i finanzieri quando gli spalloni tentavano lo sconfinamento.

Nel corso del tempo la «ramina» si è imposta come tratto identitario forte delle genti di frontiera.

Il chiassese Fernando Bossi, oggi 78enne, ha passato tutta la vita a maneggiare stecche di sigarette.

Dal 1948 ha affiancato il padre Attilio, già nel mercato all’ingrosso delle «bionde» per i contrabbandieri.

L’azienda cresce e Fernando Bossi acquista un vasto magazzino. Nel 1958 ottiene la rappresentanza esclusiva per il Ticino della «Fabrique de Tabac Réunies».

Nel 1968 smette con il contrabbando per dedicarsi completamente al commercio «convenzionale» di sigarette.

Nel 2002 chiude anche con questa attività. Oggi Fernando Bossi si racconta alle scolaresche e ha allestito in un scantinato un piccolo museo sul contrabbando.

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