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L’inedita multidimensionalità dello Stato Islamico e la risposta dell’Occidente

I nodi irrisolti della spartizione ottomana Limes

di Dario Fabbri

Gli ultimi attentati avvenuti in Europa, uniti alla guerra in corso nel teatro siro-iracheno, segnalano la natura articolata ed inedita dello Stato Islamico. Espressione delle locali istanze sunnite, nonché paladino di una filosofia universalistico-apocalittica, il Califfato è al contempo movimento indipendentista etnico-confessionale e marchio terroristico, esercito semi-regolare e franchising autistico. Un’organizzazione pienamente multidimensionale, per la cui sconfitta l’Occidente è chiamato ad adottare un approccio più sofisticato di quello attuale. Nella consapevolezza che, in assenza di un’offensiva condotta su più fronti, il fenomeno non si estinguerà con la sola disfatta bellica.

I cruenti fatti registrati di recente in Francia e in Germania – da Nizza alla Baviera fino alla Normandia – hanno scatenato la psicosi continentale e palesato il carattere sfuggente dello Stato Islamico. La cui intrinseca ambiguità confonde i decisori politici occidentali e ne magnifica la pericolosità. Con alcuni governi intenti a combatterlo sul terreno per ragioni elettorali; altri convinti di dover agire esclusivamente sulla repressione domestica; altri ancora soprattutto impegnati nel reciderne le fonti di approvvigionamento finanziario. Ma il Califfato è uno straordinario esempio di organizzazione locale e globale, laica e religiosa. Ne deriva che per batterlo servono passi molteplici e in molteplici direzioni.

Anzitutto comprenderne la genesi. Lo Stato Islamico nasce dalla rivolta delle tribù sunnite di Iraq e Siria, rispettivamente contro lo sciita governo di Baghdad e l’alauita regime di Damasco. In tale contesto l’aspetto confessionale ha soltanto valore identitario: i sunniti sono distinti dagli sciiti per ragioni etniche, non spirituali. E questi pretendono il riconoscimento delle loro richieste da parte dell’autorità centrale. Non a caso a dominare i quadri militari di un movimento che è originariamente irredentista sono spesso gli ex membri della guardia presidenziale di Saddam Hussein, di formazione laico-socialista.

A questa dimensione si aggiunge l’ideologia fondamentalista, incentrata sull’Islam quale unica redenzione di un mondo prossimo al disfacimento. L’afflato religioso consente al califfato di trasformarsi simultaneamente in struttura ecumenica e in brand, così da attrarre combattenti stranieri e reclutare attentatori occidentali di discendenza mediorientale, quasi fossero semplici utenti autoradicalizzati.

E’ dunque palese che per sbaragliare un tale mostro non basta colpirne le istallazioni a Raqqah o a Mosul. Né limitarsi a neutralizzare le cellule dormienti e i lupi solitari presenti nelle nostre comunità. Bisogna muoversi su più piani. Dopo aver militarmente sconfitto i miliziani nel Siraq, impresa comunque ardua, sarà indispensabile conferire alle popolazioni sunnite (e ai curdi) notevole autonomia. Svolta epocale, realizzabile concretamente soltanto dai regimi autoctoni. Altrimenti molto presto il risentimento tribale si trasformerà nuovamente in ribellione aperta. Forse con un’altra bandiera, ma lo Stato Islamico ripresenterà se stesso.

Quindi, soprattutto i paesi europei, devono rivedere i loro disfunzionali processi di integrazione che generano sacche di emarginazione nelle quali si diffonde il virus jihadista. E’ il momento di abbandonare definitivamente il multiculturalismo, razzismo mistificato da rispetto per i costumi altrui, che ghettizza e conserva ad infinitum l’alterità dello straniero.

Infine è essenziale per i governi occidentali investire in istruzione e in propaganda in Africa, nel Medio Oriente e in Asia Centrale, così da contrastare fondamentalismo e jihadismo. Specie nelle nazioni economicamente più fragili dobbiamo pretendere dai nostri interlocutori, quale condizione irrinunciabile della somma garantita alle attività produttive e ai servizi, l’inserimento di moderati programmi educativi nelle scuole, nelle madrase e nei media. Così da elaborare progetti di lungo periodo, che incidano sulla forma mentis delle nuove generazioni.

Elementi di una strategia multivettoriale, per questo necessaria contro un nemico tanto complesso.

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