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L’industria può salvare il pianeta?

Turbine eoliche in Kenia - per essere sostenibili, i modelli di sviluppo dovrebbero puntare sulle energie rinnovabili Reuters

Per smorzare gli effetti del cambiamento climatico, il settore privato deve passare ad un'economia verde. I paesi del Sud possono perseguire un nuovo modello di sviluppo se riescono ad accedere a tecnologie pro-clima.

Il tema è stato al centro di un dibattito organizzato a Ginevra per celebrare i cinquant’anni della Direzione svizzera dello sviluppo e della cooperazione (DSC).

«I paesi in via di sviluppo non devono perseguire un modello di crescita sbagliata, ma fare “tunneling” come si dice in gergo, ovvero attraversare direttamente la montagna. L’Africa è passata ai telefoni cellulari senza piantare chilometri di fili. Spero che questi paesi possano adottare modelli di sviluppo sostenibili ed efficaci» ha dichiarato Christophe Bouvier, direttore regionale del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP) ad una tavola rotonda sul cambiamento climatico organizzata il 12 aprile 2011 a Ginevra.

Quasi vent’anni dopo la conferenza di Rio sull’ambiente, tutti, o quasi, sono d’accordo sulla necessità di frenare il riscaldamento del pianeta. «Non è stata la scienza a giovare maggiormente alla causa del clima», nota Martin Beniston, professore all’Università di Ginevra «ma un rapporto dell’economista britannico Nicholas Stern. Nel 2006 ha dimostrato che l’inazione contro il cambiamento climatico costerebbe molto di più all’economia mondiale che un’azione decisa contro le emissioni di gas ad effetto serra.»

Eppure, nonostante questo consenso apparente, i negoziati internazionali vanno per le lunghe. Per Catherine Martinson, direttrice del WWF, il settore privato ha una responsabilità enorme in questo stallo. Alcune ONG hanno fatto il passo di lavorare direttamente con le aziende per ridurre le emissioni di CO2. Il primo contratto del WWF è stato stipulato con il cementificio Lafarge. «Certo, parlare di cemento ecologico è esagerato», ammette Martinson, «e si corre il rischio che il business cerchi solo di rinverdire la propria immagine. Ma se i contratti sono fatti bene, le aziende li devono applicare.»

Sviluppo meno avido di risorse

Jacques Markovitch, consigliere di Nestlé e di svariate altre aziende, è convinto che ci siano imprenditori responsabili che cercano di spianare nuove strade. «I rifiuti, per esempio, sono un’ottima opportunità per il business, così come la riduzione dei gas ad effetto serra, l’utilizzazione più efficace dell’acqua e le tecnologie verdi. E oggi i consumatori hanno un’influenza notevole. In Brasile, una grande catena di distribuzione è stata costretta ad imporre una moratoria sui prodotti provenienti dall’Amazzonia perchè fabbricati in condizioni irrispettose dell’ambiente.»

Il problema è che i paesi in via di sviluppo, molto più sensibili a variazioni anche minime delle precipitazioni, sono quelli più toccati dal cambiamento climatico. «Questi paesi subiscono le conseguenze dello sviluppo sfrenato dei paesi industrializzati, sottolinea Catherine Martinson. Alla base c’è chiaramente un’ingiustizia climatica, ma oggi Nord e Sud devono lavorare mano nella mano per decarbonizzare l’economia. I paesi poveri si devono sviluppare sprecando meno. Uno sviluppo meno avido di risorse è possibile.»

Ma per i piccoli e medi imprenditori, soprattutto dei paesi del Sud, il problema principale rimane l’accesso alle tecnologie verdi.

Yuka Greiler, della DSC, spiega che uno dei nuovi settori di intervento della cooperazione svizzera è proprio il miglioramento dell’efficienza energetica delle piccole industrie nei paesi emergenti. In India, per esempio, alcune aziende hanno adottato fonti di energia riciclabili.

Trasferimento di tecnologie verdi

«In Africa e nei paesi emergenti», rincara Jacques Markovitch, «ci spetta la responsabilità di trasferire tecnologie che permettano di evolvere verso un ciclo molto più verde.»

«Resta che nei negoziati internazionali sul clima, il grande problema sono gli interessi privati basati sull’economia del carbonio», osserva Yuka Greiler.

Martin Beniston ricorda che negli anni 70 e 80, quando si è cominciato a parlare di buco dell’ozono, esistevano già alternative ai gas industriali più inquinanti, il che ha permesso di adottare abbastanza rapidamente il protocollo di Montréal sull’eliminazione delle sostanze che impoveriscono lo strato dell’ozono.

«Ma la questione climatica è completamente diversa. Sappiamo che il motivo principale sono le emissioni di CO2. Ma il 75% di queste emissioni è dovuto alle energie fossili – petrolio, gas e carbone – e lì si tocca al cuore dell’economia mondiale. Purtroppo non esistono prodotti di sostituzione imediati e non siamo in grado di passare dall’oggi al domani a fonti di energia alternative».

Il Rapporto Stern dell’economia del cambiamento climatico è uno scritto di 700 pagine pubblicato nel 2006, per il governo britannico, da Nicholas Stern, professore di economia alla London School of Economics.

Criticato da taluni, resta il rapporto sul cambiamento climatico più autorevole e discusso. Propone di investire l’1% del prodotto interno lordo (PIL) globale per evitare le conseguenze peggiori e sottolinea che non farlo rischierebbe di provocare una caduta del PIL globale pari al 20%. Bolla il cambiamento climatico come uno dei peggiori insuccessi del mercato e prescrive vari rimedi, come l’introduzione di tasse ambientali.

Il attesa della conferenza Rio+20, che si terrà il prossimo anno, il Programma delle Nazioni unite per l’ambiente (UNEP) è diventato uno dei principali promotori del concetto di economia verde, che tende a dimostrare che lo sviluppo sostenibile e la protezione dell’ambiente sono economicamente proficui. Verso un’economia verde, il rapporto pubblicato nel 2011, chiede di investire il 2% del PIL globale per rinverdire dieci settori centrali dell’economia e far confluire capitali pubblici e privati in un’economia povera di carbonio.

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