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“Se la Svizzera mettesse fine alla libera circolazione, la vita non sarebbe più la stessa”

Persona sorridente
Frédéric Journès, ambasciatore di Francia in Svizzera, davanti alla residenza di Francia, a Berna. Christian Raaflaub/swissinfo.ch


Durante la crisi del coronavirus, Francia e Svizzera sono state “più che dei vicini”, ritiene l’ambasciatore di Francia in Svizzera Frédéric Journès. Queste relazioni di buon vicinato sopravviveranno alle votazioni federali del 27 settembre sulla libera circolazione delle persone con l’Unione Europea e l’acquisto di nuovi aerei da combattimento? Il diplomatico si esprime su questi dossier cruciali per le relazioni bilaterali.

È una prima nella storia delle relazioni franco-svizzere: il ministro della sanità Alain Berset parteciperà alla cerimonia che celebra la festa nazionale francese, il 14 luglio. Il presidente Emmanuel Macron intende in questo modo ringraziare la Svizzera per aver accolto nei suoi ospedali 52 pazienti francesi affetti da Covid-19.

A 51 anni, è stato nominato ambasciatore straordinario e plenipotenziario della Repubblica francese presso la Confederazione svizzera per decreto il 30 agosto 2019. Prima è stato direttore degli affari internazionali, strategici e tecnologici in seno al Segretariato francese della difesa e della sicurezza nazionale.

Se i due Paesi sembrano vivere una situazione idilliaca, i dossier che potrebbero spezzare l’incantesimo non tarderanno a tornare a galla: acquisto di nuovi aerei da combattimento, avvenire della libera circolazione tra Svizzera e Unione Europea (UE) o sottoscrizione di un accordo quadro. L’ambasciatore di Francia in Svizzera, Frédéric Journès, spera che la buona collaborazione tra i due Stati durante la crisi del coronavirus permetterà di parlarne “con più calma”.

swissinfo.ch: Come reputa la collaborazione dei due Paesi durante la crisi?

Frédéric Journès: Siamo riusciti a ottenere qualcosa di formidabile, anche se all’inizio non è stato evidente. Quando la pandemia è scoppiata in Cina, la Francia ha organizzato tre voli speciali per evacuare i cittadini svizzeri assieme ai suoi dalla regione molto colpita di Wuhan. Anche i francesi hanno potuto imbarcarsi su voli organizzati dalla Svizzera.

Ci siamo in seguito assicurati che i 30’000 frontalieri che lavorano nel settore della sanità in Svizzera avrebbero potuto continuare a lavorare negli ospedali della Confederazione. C’è stato poi questo momento grandioso quando la Svizzera ha accolto 52 malati francesi durante l’emergenza.

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L’inizio della crisi è stato però segnato da diversi problemi, come il blocco in Francia delle mascherine sanitarie destinate alla Svizzera o la minaccia che i frontalieri impiegati negli ospedali elvetici possano essere obbligati ad aiutare in Francia. Il primo riflesso in tempo di crisi è: ognuno per sé?

La minaccia di requisire il personale sanitario frontaliere è stata revocata dal 19 marzo. In proposito abbiamo dato tutte le garanzie alla Svizzera e la questione è stata rapidamente risolta. Per ciò che riguarda le mascherine, abbiamo bloccato in Francia tutto il materiale di protezione poiché stavano iniziando a costituirsi dei traffici. Me ne sono occupato personalmente e tutte le mascherine sono state consegnate in Svizzera prima del picco dell’epidemia.

“La Francia e la Svizzera fanno parte dei Paesi che hanno gestito bene questa epidemia”.

La Francia ha optato per un confinamento stretto, la Svizzera per misure meno severe. A posteriori, quale è stata la strategia più adatta?

La Francia e la Svizzera fanno parte dei Paesi che hanno gestito bene questa epidemia. Il medico svizzero Didier Pittet, che lavorerà con l’equipe francese di valutazione della gestione della crisi, l’ha detto. È vero che abbiamo agito con culture e mentalità differenti, ma anche confrontandoci con una situazione diversa. Il virus ha cominciato a circolare prima in Francia. Siamo stati dunque obbligati a essere più drastici. Ma quel che conta è che abbiamo agito nel modo giusto. I due Paesi ne escono bene. La prova: abbiamo potuto riaprire.

Gli interessi economici e politici, come il progetto di vendita di aerei militari francesi alla Svizzera o la firma dell’accordo quadro istituzionale, sono presi in considerazione nel momento del bisogno di un aiuto reciproco?

Questi dossier non hanno avuto nessun ruolo nella collaborazione durante la crisi, nel pieno della quale ci si deve occupare dei malati e della salute. Certo, non si prendono mai decisioni incompatibili con i propri interessi ma, fintanto che questi sono protetti, si dà il massimo. In seguito, penso che il successo della nostra collaborazione permetterà di affrontare con più calma i dossier che irritano. Al di là della crisi, ci siamo resi conto che siamo più che dei vicini.

Il 27 settembre, gli svizzeri si pronunceranno sull’acquisto di nuovi aerei da combattimento. Un “no” sarebbe una sconfitta per la Francia che intende vendere i Rafale alla Svizzera?

Sì, sarebbe un peccato, poiché al di là di una operazione industriale e commerciale, questo genere di grande contratto cambia le relazioni tra due Paesi. Quando ci si impegna in una simile operazione, essa pesa sul rapporto e sull’anima per trent’anni. È qualcosa che permette di costruire e ancorare la nostra relazione in un avvenire comune.

Durante la crisi abbiamo visto molte aggressioni e manipolazioni. Il mondo post Covid-19 è più pericoloso. Bisogna essere capaci di difendersi autonomamente, ma è sempre meglio avere anche un vicino sul quale poter contare.

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Con il suo percorso professionale, certi politici svizzeri la vedono come un “venditore di Rafale”. Vendere il jet francese alla Svizzera è il motivo principale per cui Lei è stato inviato qui?

Evidentemente, il successo di una cooperazione come questa sarebbe molto positivo. Se la Svizzera acquistasse il Rafale, ne sarei fiero e direi che ho aiutato a convincere. Tuttavia, non sono io il mercante, sono gli industriali a occuparsene. Il mio ruolo è spiegare quello che conosco della tecnica e della qualità di ciò che offriamo, ma la mia missione non si limita a questo. C’è tutto il resto, quello che riguarda la cooperazione, la solidità delle relazioni. Proverei la stessa fierezza che ho provato quando abbiamo fatto entrare i 52 pazienti francesi in Svizzera, quando abbiamo sbloccato la consegna delle mascherine, quando ci siamo messi d’accordo sui frontalieri o abbiamo riaperto le frontiere. È lo stesso tipo successo, secondo me.

La decisione di acquistare un nuovo aereo da combattimento è al contempo militare e diplomatica. Quattro costruttori sono ancora in lizza: il francese Dassault (Rafale), l’europea Airbus (Eurofighter) e gli statunitensi Boeing (F/A-18 Super Hornet) e Lockheed-Martin (F-35A). Come reagirebbe se la svizzera acquistasse un jet americano?

Continueremmo a lavorare insieme, ma perderemmo l’occasione di ottenere il meglio dall’ottima cooperazione aerea che abbiamo. Anche se la Svizzera ha acquistato degli aerei statunitensi (gli F/A-18), si allenano sopra il Giura francese. Lavoriamo bene insieme, facciamo grandi esercitazioni. Anche se siete neutrali e noi schierati in seno a un’alleanza, abbiamo scambi di conoscenze e una cooperazione formidabile in questo settore.

“Credo che gli svizzeri siano molto responsabili e che in periodo di crisi non vogliano prendersi dei rischi sconsiderati”.

Tenendo conto della nostra prossimità geografica, in caso di conflitto esterno, di minaccia, potremmo valorizzare questo aspetto. I quattro aerei in lizza sono tutti adatti a questa missione, ma il Rafale ha un vantaggio: è stato concepito per ogni genere di missione, perché non abbiamo i mezzi di elaborarne molti diversi. È un coltellino svizzero.

Gli svizzeri si esprimeranno in settembre anche sull’iniziativa popolare dell’Unione democratica di centro (UDC, destra conservatrice) che vuole abolire la libera circolazione delle persone con l’UE. Lei teme un “sì” alle urne?

Credo che gli svizzeri siano molto responsabili e che, in periodo di crisi, non vogliano prendersi dei rischi sconsiderati. In questo caso, bisogna essere lucidi. Si tratta di una scelta sovrana, ma cambierebbe e influenzerebbe la vita dei 200’000 svizzeri in Francia, degli 1,5 milioni di europei in Svizzera. Nel periodo che stiamo attraversando, non possiamo permetterci di prenderci tali rischi.

Un “sì” peggiorerebbe le relazioni tra Svizzera e Francia?

Se la Svizzera mettesse fine alla libera circolazione, la vita non sarebbe più la stessa. Non ci si deve fare illusioni. Sparirebbe la facoltà di circolare liberamente e senza controlli a cui siamo abituati. Quindi bisognerebbe agire come durante la crisi, canalizzando il flusso in certi punti di passaggio per verificare chi entra e chi esce. Si farebbe la coda.

L’accordo quadro tra la Svizzera e l’UE si trova al momento in un’impasse. Credete possa essere sottoscritto entro la fine di quest’anno?

Dopo la votazione del 27 settembre, se gli svizzeri non decideranno di allontanarsi dall’Unione Europea, avremo il tempo di lavorare seriamente alla conclusione di un accordo. Ma per farlo, serve la volontà arrivare in fondo, e non era il caso nel 2018. La Svizzera deve ora definire i chiarimenti di cui ha bisogno e parlarne con la Commissione europea.

Una volta che un accordo soddisfacente sarà raggiunto, il sistema politico svizzero dovrà scegliere di sostenerlo per non ripartire con dei ritardi che non servono a nulla. Questo è tutto molto importante per stabilizzare le nostre relazioni economiche. Non dimentichiamo che l’UE rappresenta più della metà degli sbocchi commerciali della Svizzera.

Secondo Lei, la Svizzera ha dato prova di scarsa volontà in questo dossier?

Quando si conclude un accordo, c’è un momento importante in cui si mette fine ai negoziati e bisogna adottarlo. Credo, in effetti, che questo momento sia mancato a causa di una carenza di coesione, di interesse o perché si sperava di spremere qualcosa in più.

In Svizzera, molti dossier dipendono dalle decisioni popolari prese durante una votazione federale. Cosa pensa Lei del nostro sistema di democrazia diretta?

Fin dal mio arrivo, sono stato affascinato e sorpreso da tutto questo sistema. Mi piace la possibilità di sollecitare l’opinione della gente. Il vostro sistema funziona perché basato su un governo che funziona in modo collegiale e un parlamento consensuale. Una cosa che non c’è nella maggior parte dei vostri vicini europei.

L’anno scorso Emmanuel Macron ha affossato l’introduzione di un referendum d’iniziativa cittadina, una delle rivendicazioni del movimento dei Gilet gialli. Perché la Francia non è ancora pronta a introdurre certi strumenti della democrazia diretta?

“Non si può capire un Paese se non si cerca di amare il luogo in cui ci si trova”.

Noi non elaboriamo le leggi nello stesso modo e la posizione della nostra democrazia rappresentativa è differente. In Francia, servono delle maggioranze parlamentari che sostengano il governo. Da voi è diverso. Le leggi sono elaborate tramite il consenso parlamentare. Il pericolo è avere delle scelte popolari che condizionano completamente la politica del Paese per decenni. Per esempio, la relazione della Svizzera con l’Europa è stata determinata da un voto che risale al 1992 sul quale non si è mai ritornati. Poi, ogni quattro anni, una nuova votazione rimette in causa questa relazione. È complicato costruire qualcosa in questo modo.

Su Twitter, Lei pubblica regolarmente delle foto di paesaggi svizzeri ammirandone la bellezza. Le piace avere anche il ruolo di ambasciatore svizzero per i suoi compatrioti?

Non si può capire un Paese se non si cerca di amare il luogo in cui ci si trova. Da voi, in ogni caso, è facile. Berna è una città che apprezzo enormemente. Mi bastano venti minuti di bicicletta per salire sul Gurten e trovarmi nella natura. Passerò le vacanze a Lauterbrunnen sopra Interlaken e andrò brevemente a Zermatt. Faccio vacanze svizzere come raccomandano il ministro della sanità Alain Berset e la ministra di giustizia e polizia Karin Keller-Sutter.

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traduzione dal francese, Zeno Zoccatelli

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