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Il voto del Ticino sul burqa potrebbe fare scuola

Due votanti su tre, in Ticino il 22 settembre hanno approvato il divieto di coprirsi il volto in pubblico Keystone

Al massiccio 'sì' del Ticino al divieto di indossare il velo integrale nei luoghi pubblici, seguirà probabilmente un'iniziativa analoga a livello nazionale. Parte dei musulmani in Svizzera e le organizzazioni di difesa dei diritti umani insorgono contro questo nuovo attacco contro una comunità già colpita dal voto del 2009 sui minareti.

Il Ticino domenica è diventato il primo cantone svizzero a decidere di proibire il burqa e il niqab nei luoghi pubblici. Il risultato schiacciante a favore dell’iniziativa popolare (oltre il 65 % dei voti ) mette le ali ai sostenitori di tale divieto a livello nazionale.

“Il testo è pronto. È molto simile all’iniziativa del canton Argovia, respinta dalle Camere federali nel 2012, che chiedeva di proibire di nascondere il volto nello spazio pubblico”, afferma nelle colonne del quotidiano Le Temps l’ex deputato dell’Unione Democratica centro (UDC, destra conservatrice) Ulrich Schlüer, padre dell’iniziativa anti-minareti del 2009.

Presidente del Comitato di Egerkingen , che aveva condotto con successo la lotta contro la costruzione di nuovi minareti, il deputato UDC Walter Wobmann ha dal canto suo dichiarato alla Televisione svizzera romanda RTS che la raccolta delle 100mila firme necessarie per la riuscita di tale iniziativa comincerà sicuramente la prossima primavera. Il testo andrebbe nel senso delle leggi già adottate in Francia (2010) e in Belgio (2011). Nel mirino c’è chiaramente il velo islamico integrale.

Prima di poter essere applicata, l’iniziativa sul divieto del burqa in Ticino, approvata in votazione popolare il 22 settembre nel cantone italofono, dovrà ancora ottenere l’approvazione del parlamento federale. La procedura richiederà almeno due anni, secondo la Cancelleria dello Stato ticinese, interrogata dall’agenzia di stampa Ats. Dato che si tratta di un emendamento alla Costituzione cantonale, questa deve ottenere la garanzia dal parlamento federale. È però rarissimo che essa non venga accordata.

Ma diversi esperti intervistati dal quotidiano zurighese Tages-Anzeiger ritengono che il divieto di burqa abbia grandi possibilità di essere sconfessato dai tribunali svizzeri. A loro avviso, tale norma sarebbe sproporzionata, probabilmente violerebbe la libertà di religione e non sarebbero sufficientemente basata su un interesse pubblico preponderante.

Non vi è attualmente alcuna giurisprudenza del Tribunale federale, la Corte suprema della Svizzera. La Grande Camera della Corte europea dei diritti umani dovrebbe pronunciarsi entro la fine dell’anno su denunce depositate in Francia dopo l’adozione, nel 2010, della legge sul divieto di dissimulare il viso.

Necessari diversi anni

Se l’iniziativa fosse effettivamente lanciata nella primavera 2014 e raccogliesse il numero di firme necessarie, in ogni caso la votazione avrebbe luogo solo tra qualche anno. Potrebbe però diventare uno dei grandi temi di dibattito durante la campagna per le elezioni federali del 2015.

Il vicepresidente dell’UDC, Claude-Alain Voiblet applaude la decisione dell’elettorato ticinese: “mostra chiaramente che l’UDC vede giusto quando denuncia i problemi di integrazione in questo paese”. Voiblet tiene tuttavia a prendere le distanze dalle azioni dei membri del Comitato di Egerkingen, puntualizzando che quest’ultimo è indipendente dal più grande partito della Svizzera. “Nulla è finora stato intrapreso all’interno del partito per il lancio di un’iniziativa nazionale. Ma è molto probabile che l’UDC la sosterrebbe”, riconosce.

Sulla questione di fondo, Claude-Alain Voiblet è assolutamente convinto dei meriti di un tale divieto. “Nella nostra società giudaico-cristiana , non possiamo accettare che le donne siano costrette ad indossare simili indumenti”.

La proposta ha anche il sostegno di alcuni parlamentari del centro destra. “Il burqa non è compatibile né con i nostri valori né con l’obiettivo di integrazione”, ha detto al quotidiano vallesano Le Nouvelliste il presidente del Partito popolare democratico (PPD) Christophe Darbellay. Egli ha aggiunto di saper fare “la differenza tra un turista e una persona che viene a stabilirsi in Svizzera, alla quale si chiede di integrarsi”.

“Si tratta di un problema di sicurezza. La polizia deve poter effettuare controlli d’identità e, per questo, il volto deve essere scoperto”, rincara il suo collega di partito Urs Schwaller, nel quotidiano zurighese Tages-Anzeiger.

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“Una prigione di stoffa”

Un altro artefice dell’iniziativa anti-minareti, Oskar Freysinger denuncia con veemenza il burqa, “quella prigione di stoffa che è solo la forma visibile di una prigione dogmatica”. Nel 2010 , la sua mozione intitolata “Giù le maschere!”, che proponeva un divieto simile, è stata respinta dal parlamento. La Camera alta aveva ritenuto che spettasse ai cantoni legiferare su tali questioni di sicurezza.

Tenuto conto soprattutto della sua nuova funzione di consigliere di Stato (ministro cantonale) in Vallese, Oskar Freysinger afferma di “voler discutere la formulazione del testo per evitare una nuova guerra di religione”. Ma avverte che se il parlamento federale mantiene il suo rifiuto di legiferare in materia di “situazioni di vita comune in cui ci si può aspettare che un cittadino si mostri a viso scoperto”, l’iniziativa avrà chiaramente la probabilità di essere accettata dal popolo svizzero.

La prospettiva di un tale dibattito nazionale rammarica le organizzazioni per la tutela dei diritti umani, che sono state praticamente sole in prima linea ad opporsi all’iniziativa ticinese.

“Il burqa è un falso problema, che viene sfruttato per fini politici”, dice Nadia Boehlen, portavoce della sezione svizzera di Amnesty International. “I sostenitori del divieto pretendono che lottano contro l’intolleranza, ma non fanno altro che alimentare un discorso xenofobo e islamofobo. Rischiano così di macchiare di nuovo l’immagine della Svizzera nei paesi musulmani”.

Il deputato Verde Ueli Leuenberger parla di una “campagna ideologica e irrazionale su un problema inesistente”.

“Un nuovo tipo di crociata”

La presidente dell’Associazione culturale delle donne musulmane della Svizzera, Nadia Karmous, denuncia da parte sua “un nuovo tipo di crociata”. Da quanto le risulta, eccettuate delle mogli di diplomatici e turiste, in Svizzera c’è soltanto una dozzina di donne che indossano il velo integrale. La maggior parte sarebbero svizzere convertite all’islam. “In Francia e in Belgio, le donne hanno cominciato a indossare il velo integrale come reazione all’entrata in vigore della legge. Questo divieto crea più problemi di quanti ne risolva”, commenta.

Nadia Karmous prevede che il lavoro di integrazione, già minato dalla votazione molto emotiva sui minareti, potrebbe diventare ancor più difficile nel contesto di un dibattito nazionale sul divieto del burqa”. Molti musulmani che erano pronti a progredire nel dialogo interreligioso si sono chiusi su se stessi, sulle loro famiglie. Avranno ancora più difficoltà a integrarsi e ad aprirsi agli altri”.

Oskar Freysinger nega ogni volontà di “discriminazione o razzismo nei confronti del mondo arabo”. Al contrario , sostiene il democentrista vallesano, “vogliamo che queste donne diventino cittadine europee, come le nostre donne. Per questo combattiamo un patriarcato feroce, una segregazione brutale. Sono stupito che negli ambienti di sinistra vi siano persone che possano difendere queste cose”.

“Questi politici sono né degli eroi né degli zorro delle donne musulmane. Farebbero meglio ad impegnarsi per grandi cause, come la guerra in Siria, invece di inventare nuove storie assurde”, replica Nadia Karmous.

L’uomo d’affari Rachid Nekkaz ha annunciato che si impegna a pagare le multe di tutte le donne che indossano liberamente il niqab o il burqa per le strade della Svizzera. Già attivo in Francia e in Belgio, il francese di origine algerina vuole estendere la sua lotta “contro l’islamofobia dilagante”, dopo la votazione del 22 settembre in Ticino.

In nome della “libertà e della laicità”, l’uomo d’affari ha istituito un fondo di un milione di euro nel luglio 2010 per pagare le multe delle musulmane verbalizzate in Francia e in Belgio a causa della velo. Da allora, Rachid Nekkaz ha pagato 682 multe per un totale di 123mila euro (circa 152mila franchi), scrive egli stesso in un comunicato diramato il 24 settembre.

Rachid Nekkaz, che si definisce un “militante dei diritti umani,” è pronto a “ridicolizzare qualsiasi governo e parlamento che non rispettasse le libertà fondamentali garantite dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU)”.

(Traduzione dal francese: Sonia Fenazzi)

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