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In Giappone non si vede ancora la primavera

Un mese dopo la catastrofe, le cicatrici sono ancora molto profonde swissinfo.ch

Il Giappone è in ginocchio, un mese dopo la triplice catastrofe che ha colpito le province settentrionali. Il coraggio dei giapponesi eguaglia le dimensioni dello sforzo che devono compiere per superare la crisi. La ricostruzione non è iniziata, la situazione è disperata. Reportage.

“Scopro un Giappone diverso, più solidale, più unito”. Sono passati esattamente otto anni da quando il musicista Samy Guediche, di Losanna, è rimasto affascinato dall’Impero del Sol Levante. A tal punto che in giugno vi si stabilisce.

Al momento del disastro ai primi di marzo, è in Svizzera. Dopo le cancellazioni di alcuni voli, finalmente alla fine di marzo torna a Tokyo, per scoprire un paese “che non si lascia né prendere dal panico né abbattere. Qui vedo gente che prende l’iniziativa di partire con la propria auto stracarica di cibo per andare nei campi di sinistrati nel nord. Trovo che sia esemplare, rispetto per esempio a quello che ho visto negli Stati Uniti dopo l’uragano Katrina”.

Dal paradiso all’inferno

“Per quanto sia rude l’inverno, la primavera finirà per arrivare”, dice il governatore della provincia di Iwate, parlando l’11 aprile nella palestra del liceo di Kamaishi, una delle città martiri della costa del Pacifico. Sono le 14:46, l’ora in cui il terremoto aveva scosso la regione esattamente un mese prima. La sala funge da centro di accoglienza, gli sfollati sono sistemati sul pavimento. Rispetto ai primi giorni di emergenza, le condizioni sono migliorate: si mangia a sazietà, è meno freddo, l’energia elettrica è tornata.

“Prima dello tsunami, la vita qui era un paradiso. Adesso è un inferno!”, racconta Ueno Hiroya, 16 anni, la cui casa è stata spazzata via. Da allora, è volontario presso il centro d’accoglienza. Sogna di diventare docente, e nemmeno per un secondo pensa di abbandonare la sua regione.

Lo stesso vale per il suo amico Atsuya Sasaki, 17 anni: “È da tanto che voglio diventare una guardia costiera. Dopo il disastro, il mio desiderio è ancora più forte, al fine di aiutare la gente”.

Anche Shoko Kobayashi, ha solo 17 anni. “La nostra casa è praticamente intatta, ma mio padre è morto nello tsunami. Ho paura di tornare a casa”. Ma nonostante il trauma, è determinata a concludere gli studi commerciali e a lanciarsi in “una professione che faccia tornare il sorriso sui volti della gente. Per esempio estetista”.

Il senso del dovere

A pochi chilometri da Kamaishi, il villaggio di Taro non esiste più. L’onda gigante si è fatta un baffo delle sue mura anti-tsunami, che erano considerate senza rivali ed erano registrate nel Guinness dei primati. Toshinobu Koike dirige la brigata dei vigili del fuoco, incaricata di smistare le macerie. “Sono stati trovati 130 morti. Siamo alla ricerca di circa 200 dispersi. Il villaggio contava 4000 abitanti”.

Alla domanda se egli stesso ha subito danni, rivela di aver “perso la casa, la moglie e la figlia”. La sua emozione traspare solo quando spiega che trae forza nel senso del dovere, e che “prega affinché il villaggio sia ricostruito, perché il destino vuole che io viva qui”.

La paura delle radiazioni è reale

“A Losanna, guardando la tv, si vedeva in continuazione Fukushima, il disastro nucleare. Qui, i telegiornali vi dedicano solo pochi minuti, si concentrano sui soccorsi ai superstiti”, rileva Samy Guediche.

“I miei amici giapponesi di Tokyo non s’informano sui tassi di radioattività. Io sì. Consulto siti indipendenti. Le concentrazioni non sono pericolose”. Per quanto riguarda la politica d’informazione delle autorità, lo svizzero afferma che i giapponesi non sono tonti: “sanno che il governo nasconde qualcosa. Ma capiscono che non c’è praticamente margine di manovra. Occorre evitare qualsiasi movimento di panico su larga scala”.

Sul posto, la paura delle radiazioni è tuttavia ben presente. A Tokyo, Kazuaki Fujioka è vicesegretario della principale organizzazione antinucleare giapponese (la Japan Congress Against A- and H-Bombs). “Dalla catastrofe di Fukushima, il numero dei nostri membri è decuplicato. In autunno costringeremo il paese a chiudere le centrali”.

La linfa non si muove

Nella zona devastata, si confermano gli avvertimenti lanciati da anni dai pescatori. “Le sostanze radioattive rilasciate da Fukushima non ci si preoccupano troppo”, dice Masayuki Yamasaki, che dirige le operazioni di soccorso a Taro. “Le correnti oceaniche non le portano verso di noi. La nostra preoccupazione è l’altra centrale, 200 km a nord, pure esposta”.

Ciò nonostante, Samy Guediche continua a puntare sul Giappone. Prevede d’inaugurare una scuola di DJ’s a Tokyo in luglio, “per insegnare ai giovani l’arte del mixaggio dei dischi. Sono convinto che il Giappone si rimetterà in piedi. Economicamente, non ci sarà alcun impatto, in ogni caso non oltre i prossimi 6 mesi”.

Nel frattempo, a Taro, si è ben lungi dal pensare alla ricostruzione. E l’economia non gira. Per il grosso dei lavori di sgombero ci vorranno almeno 3-4 mesi. C’è da chiedersi se davvero arriverà la primavera. Per ora, la linfa non sale.

Voli. La compagnia Swiss ha ripristinato il collegamento quotidiano diretto tra Zurigo e Tokyo. Nell’ultimo mese aveva annullato diversi voli a causa della scarsa domanda e fatto transitare gli aerei per Hong Kong.

Rappresentanza. L’ambasciata svizzera a Tokyo è nuovamente aperta. Per due settimane era stata trasferita a Osaka a titolo cautelativo.

Prudenza. Il Dipartimento federale degli affari esteri sconsiglia ancora di recarsi nella regione di Tokyo/Yokohama per viaggi turistici. Inoltre, raccomanda ai cittadini svizzeri che si trovano nel nord del Giappone di partire provvisoriamente.

La Catena della solidarietà in un mese ha raccolto più di 11 milioni di franchi in favore delle vittime delle catastrofi in Giappone.

I fondi saranno consegnati ai partner nipponici dell’Agenzia avventista di aiuto e sviluppo (ADRA), Caritas, Croce Rossa Svizzera e l’Esercito della salvezza.

(traduzione dal francese: Sonia Fenazzi)

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