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Il valore futuro delle presidenziali austriache

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di Dario Fabbri (Limes)

Apparentemente in Austria non è successo nulla. A dispetto dell’attenzione ricevuta e della preoccupazione suscitata, gli elettori austriaci hanno eletto un presidente europeista. Quasi un evento in tempi di imperversante euroscetticismo. Eppure, se analizzato in prospettiva futura, il voto registrato Oltralpe segnala l’ormai conclamata crisi dei partiti legati all’establishment e l’atteggiamento anti-immigrazione ed anti-europeo di buona parte dell’opinione pubblica continentale. Sviluppi che potrebbero presto rivelarsi molto rilevanti. In Austria e nel resto d’Europa.

In seguito all’affermazione ottenuta al primo turno da Norbert Hofer, candidato del populista Partito della Libertà (FPÖ), le forze liberali austriache sono riuscite a creare un cordone sanitario ai suoi danni e ad eleggere per un pugno di voti (31mila) il verde Alexander Van der Bellen. Fresco di (risicato) successo il neopresidente ha richiamato le forze politiche all’unità e promesso di mantenere intatta la vocazione europeista di Vienna. Dunque tutto bene quel che finisce bene. Se non fosse che in Austria il presidente dispone di poteri assai limitati e che il FPÖ è ora il primo partito del paese. Il movimento già guidato da Jörg Haider potrebbe facilmente imporsi nel 2018, quando sono previste le prossime elezioni politiche, e Hofer diventare allora cancelliere. In barba a quanti in questi giorni hanno esultato perché il candidato originario del Burgenland non ha conquistato l’assai meno rilevante carica di presidente. Peraltro il risultato di domenica scorsa palesa la disfatta dei partiti tradizionali, costretti nel ballottaggio a schierarsi con il leader dei Verdi – dunque di per sé un outsider – e a spendere tutto il proprio peso politico per sconfiggere Hofer.

A livello europeo poi il risultato austriaco rappresenta l’ennesimo passaggio di un’inclinazione ormai generale. Vero, l’Austria è un paese di “appena” otto milioni di abitanti, ma è anche uno dei più benestanti dello spazio comunitario e tra quelli che accolgono il maggior numero di rifugiati pro capite. La chiusura di buona parte degli austriaci nei confronti dei migranti e l’indifferenza nei confronti delle delibere di Bruxelles non è dovuta soltanto ai postumi della crisi economica. Né è paragonabile al fragile nazionalismo delle nazioni dell’Europa Orientale, gelose di una sovranità ceduta per decenni all’Unione Sovietica. Piuttosto è conseguenza del cronico scadimento dell’identità continentale e della tendenza degli Stati europei ad affidarsi nelle fasi di transizione, anziché all’istituzioni comunitarie, alla propria cifra geopolitica. Come dimostrato dalla capacità del governo di Vienna di influenzare le decisioni in materia di migranti dei paesi della regione balcanica, storica area di influenza austriaca. Unica differenza rispetto al recente passato, la volontà dell’Austria di disattendere le decisioni della Germania, di cui è stata a lungo satellite e del cui sistema economico è parte.

Tendenze che potrebbero corroborarsi con le prossime consultazioni elettorali. E che potrebbero trovare ulteriore conferma nel resto d’Europa. Quando apparirà perfino più evidente il valore futuro delle presidenziali austriache.

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