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Il miraggio della democrazia in Birmania

Lavoratori birmani in una salina sul delta dell'Irrawaddy. Keystone

Il 7 novembre si tengono in Myanmar le prime elezioni generali dal 1990. L'Associazione Svizzera-Birmania non si fa però alcuna illusione: lo scrutinio non ha nulla di democratico e non farà altro che rafforzare il potere dei militari.

Vent’anni dopo le prime elezioni “democratiche” e la vittoria stracciante del partito del premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi – poi annullata dalla giunta – la Birmania è nuovamente chiamata alle urne.

Oltre 27 milioni di aventi diritto di voto dovranno eleggere i membri delle due camere del parlamento e dei consigli regionali. Tra le 37 forze politiche in lizza spicca il Partito Unione Solidarietà e Sviluppo (Union Solidarity and Development Party, USDP), vicino ai militari, unico partito ad essere presente in tutte le circoscrizioni.

Il voto del 7 novembre è l’ultimo tassello della “road map verso la democrazia” stabilita dal regime birmano. Nonostante il governo parli di un’elezione «libera e corretta» sono in molti a ritenere che si tratterà invece dell’ennesima farsa inscenata dalla giunta al potere da 40 anni.

«Non ci crediamo minimamente: questa elezione è un disastro che rischia soltanto di consolidare il potere della giunta militare», afferma a swissinfo.ch Colin Archer, vicepresidente dell’Associazione Svizzera-Birmania.

«I militari hanno semplicemente tolto l’uniforme per vestirsi da civili. Ma li conosciamo da troppo tempo: non si interessano né alla democrazia né alla società civile».

Cibo in cambio del voto

La prova della loro ipocrisia, prosegue Archer, è la dissoluzione della Lega Nazionale per la Democrazia (LND), il principale partito dell’opposizione creato da Aung San Suu Kyi. La stessa “dama di Yangon”, costretta agli arresti domiciliari, non potrà dunque candidarsi, così come gli oltre 2’000 prigionieri politici dietro le sbarre.

Diverse organizzazioni internazionali e birmani all’estero denunciano il modo di agire della giunta e dell’USDP. Nei villaggi i voti vengono comperati in cambio di denaro, riso, assistenza sanitaria o promesse di prestiti a bassi interessi, scrive un’analista birmano sul quotidiano dissidente Irrawaddy.org. Frequenti sono le minacce di violenze o di incarcerazione.

La Società per i popoli minacciati, con sede a Berna, denuncia da parte sua la discriminazione dei partiti delle minorità etniche. Più di una dozzina di partiti indipendenti, scrive, è stata esclusa dalle elezioni dalla Commissione elettorale.

Inoltre, l’annullamento delle elezioni in 3’400 villaggi (una misura che il governo ha giustificato con motivi legati alla sicurezza) impedirà a 2,5 milioni di Shan, Karen e Mon di partecipare al voto.

«Sono elezioni che non si basano sulle norme internazionali», sottolinea Archer, ricordando le severe condizioni imposte per l’iscrizione dei partiti e dei candidati oppure l’esclusione dei monaci dal voto.

Un quarto dei seggi ai militari

Una parte dei candidati è inoltre scelta dal governo, rammenta Archer. La Costituzione stabilisce infatti che il 25% dei seggi parlamentari è destinato ai militari. Secondo gli analisti, i partiti etnici, perlomeno quelli che si distanziano dalla visione del governo, hanno poche possibilità di successo. Non solo per mancanza di mezzi, ma anche per l’incapacità (o l’impossibilità date le circostanze) di riunirsi in un gruppo più grande e quindi con più peso.

«Tra le varie etnie ci sono differenze culturali, linguistiche e religiose. Il sistema totalitario fa sì che per la gente è molto difficile organizzarsi e sviluppare un clima di fiducia. Non escludo comunque la formazione di alleanze interetniche dopo le elezioni», annota Colin Archer.

Le elezioni di quest’anno, prosegue, non possono essere paragonate a quelle di vent’anni fa. «Come detto non ci sarà la LND e non ci sarà Aung San Suu Kyi. Inoltre, le elezioni del 1990 facevano seguito alle repressioni di due anni prima: il regime aveva bisogno di mostrare un’altra faccia. Oggi, invece, siamo di fronte a un tentativo alquanto bieco per ristabilire il controllo dei generali e passare il testimone a una nuova generazione di militari».

Porte chiuse

A screditare lo scrutinio è poi il divieto di entrare in Birmania in occasione delle elezioni, imposto a osservatori e giornalisti stranieri.

«Siccome abbiamo molta esperienza nelle elezioni non abbiamo bisogno di esperti in materia», ha comunicato Thein Soe, presidente della Commissione elettorale, precisando che la presenza dei diplomatici e dei rappresentanti delle Nazioni Unite che già lavorano in Myanmar sarà sufficiente a monitorare il voto.

Secondo il relatore speciale dell’ONU per i diritti umani in Birmania, Tomas Ojea Quintana, i presupposti per un’elezione corretta sono al contrario «ridotti nel contesto attuale». Apparecchi fotografici e telecamere saranno ad esempio vietati all’interno degli uffici elettorali.

Per la Svizzera, «la decisione del governo birmano di indire elezioni multipartitiche il 7 novembre 2010 è di per sé positiva», ci comunica Pierre-Alain Eltschinger, portavoce del Dipartimento federale degli affari esteri.

«La Confederazione – puntualizza Eltschinger – deplora tuttavia il fatto che oltre alle già severe restrizioni della libertà di espressione, di associazione e di stampa, la legge elettorale emanata recentemente impedisce uno svolgimento libero e corretto della campagna elettorale».

Nessuna svolta

La parte interessante del processo elettorale, sottolinea il vicepresidente dell’Associazione Svizzera-Birmania, «verrà dopo le elezioni».

«Forse si assisterà a un ammorbidimento delle posizioni del governo su alcuni dossier. Oppure il regime tenterà di istaurare contatti con gruppi etnici ancora in lotta. Dubito però che assisteremo a un cambiamento radicale».

Ex colonia britannica, la Birmania (Unione del Myanmar dal 1989) ottiene l’indipendenza nel 1948. Un colpo di stato nel 1962 mette fine alla giovane democrazia.

La soppressione dei partiti politici e la repressione delle libertà isolano il paese dal resto del mondo.

Nell’agosto del 1988 la giunta militare soffoca con la forza una serie di proteste studentesche. I morti e i feriti si contano a migliaia.

In occasione delle elezioni del 1990, la Lega Nazionale per la Democrazia (LND, guidata dal premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi) ottiene oltre l’80% dei voti. La giunta si rifiuta di cedere il potere, arrestando Aung San Suu Kyi (tutt’ora agli arresti domiciliari) e altri leader del partito.

Nel 2007 le proteste di piazza capeggiate dai monaci buddisti sono represse nel sangue dai militari.

Nel maggio 2008 è approvata in referendum la nuova Costituzione. Il testo è contestato dalla LND in quanto esclude la partecipazione della leader del partito alle future elezioni.

A fine settembre 2010, la giunta al potere annuncia che Aung San Suu Kyi, che ha passato 15 degli ultimi 21 anni agli arresti domiciliari, sarà liberata una settimana dopo le elezioni, il 17 novembre.

È di pochi giorni fa la notizia dell’adozione da parte del governo di nuovo nome per il paese (Repubblica dell’Unione del Myanmar), di una nuova bandiera e di un nuovo inno nazionale.

La Svizzera sostiene le organizzazioni internazionali e svizzere di aiuto impegnate in favore dei profughi birmani rifugiatisi in Thailandia e delle minoranze etniche vittime di deportazioni interne, indica il Dipartimento federale degli affari esteri (DFAE).

Berna, analogamente all’Unione europea, ha adottato sanzioni nei confronti dei membri del regime e delle società ad essi vicine (congelamento dei beni, divieto di ingresso sul territorio,…).

Inoltre, sottolinea il DFAE, la Svizzera esprime le sue preoccupazioni sulla situazione dei diritti umani in Myanmar nel quadro dell’Assemblea generale dell’ONU, del Consiglio dei diritti umani e attraverso azioni bilaterali.

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