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Il fedelissimo di Gheddafi in Italia per i migranti

Fedelissimo di Muhammar Gheddafi, poi suo acerrimo nemico. Vicino alla Cia, ma sostenuto dalla Russia. Minaccia di bombardare l'Italia, salvo accogliere sorridente pochi giorni dopo il ministro dell'Interno Marco Minniti, nel suo quartier generale di Bengasi. Il generale Khalifa Haftar impersona nella sua ambigua figura tutte le contraddizioni di una Libia ostaggio di milizie ed odi tribali, che appare sempre lontana dal percorso verso la stabilizzazione. Oggi era a Roma.

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Dall’inizio dell’anno 134.549 migranti e rifugiati sono giunti in Europa via mare e 2.654 sono morti mentre tentavano di attraversare il Mediterraneo. Oltre il 75 % degli arrivi è stato registrato in Italia (103.318).

Il totale degli arrivi in Italia nel 2017 risulta del 21,5% inferiore a quello segnalato per lo stesso periodo del 2016 (131.683).

E oggi a Roma c’era proprio il generale libico Khalifa Haftar che controlla l’est del paese. Interlocutore non riconosciuto dall’ONU ma fondamentale per l’Italia per la sua efficace ma controversa strategia di contrasto all’immigrazione. 

Chi è Haftar?

Divisa, baffi neri e capelli grigi in ritirata dalla fronte, Haftar – 74 anni – svolge la sua formazione militare anche in Russia ed Egitto. Nel 1969 è uno dei giovani ufficiali che supporta il colonnello Gheddafi nel suo colpo di Stato contro re Idris. Sale nelle gerarchie fino a diventare uno dei comandanti più rispettati dal rais. Nel 1986 guida le forze libiche nella guerra contro il Ciad, ma viene fatto prigioniero, insieme ad alcune centinaia dei suoi uomini. Ed avviene il distacco da Gheddafi, che prende le distanze da Haftar e lo abbandona al suo destino. Entra in campo la Cia, che lo individua come possibile antagonista di Gheddafi. Dopo complessi trasferimenti in Kenya e Zaire, infatti, l’ufficiale vola negli Stati Uniti nel 1990, diventa cittadino americano e a vivere in Virginia, non lontano dal quartier generale della Cia.

Dopo un fallito tentativo di rovesciare Gheddafi nel 1996, Haftar rimane ‘americano’ fino al 2011, quando torna in Patria e partecipa alla guerra culminata nel rovesciamento del regime del Colonnello. Rafforza la sua posizione nella Cirenaica, sostenuto da Egitto, Arabia Saudita e Russia. Nel 2014 lancia l’operazione Dignity contro le milizie islamiche di Bengasi. Diventa il comandante delle forze armate del Parlamento di Tobruk, che si oppone a quello di Tripoli, sostenuto dall’Onu. Già il nome delle sue truppe – Libyan national army – svela l’obiettivo: essere il comandate delle forze armate della Libia riunita. E magari non solo, come dimostra la carriera del suo sponsor egiziano Abd al Fattah al Sisi.

Al pari del suo vecchio amico-nemico Gheddafi, Haftar non rinuncia alle dichiarazioni iperboliche di guerra delle quali fa le spese anche l’Italia, come quando – lo scorso agosto – annuncia l’ordine di bombardare le navi della Marina in arrivo a Tripoli. C’è chi lo considera un ‘signore della guerra’ con meno presa sul territorio di quanto vorrebbe far credere, ma la recente offensiva diplomatica del generale dimostra che la costruzione di una governance in Libia non può prescindere da lui.

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