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Il Forum economico mondiale può fermare la deglobalizzazione?

giovani che protestano
L'attivista climatica Greta Thunberg ha inscenato una protesta fuori il centro dei congressi di Davos durante l'ultimo WEF nel 2020. È stata tra le poche persone giovani a essere stata invitata all'evento annuale. Keystone / Gian Ehrenzeller

Le forze che si oppongono alla visione di un ordine economico globale promossa dal Forum economico mondiale di Davos (WEF) stanno guadagnando terreno. Che sia l’inizio della fine del WEF come lo conosciamo oggi?

I giganti del mondo politico ed economico riuniti nella località alpina di Davos questa settimana si trovano ad affrontare un panorama molto diverso da quello del loro ultimo incontro faccia a faccia, nel gennaio del 2020. In aperto contrasto con la tradizione, quest’anno il Forum economico mondiale (WEFCollegamento esterno) si riunisce nel pieno della primavera, anziché in inverno. Ma se in questo periodo dell’anno le temperature in Svizzera sono decisamente più miti, l’invasione russa dell’Ucraina ha gettato un’ombra sull’evento del 2022, ora intitolato “Una svolta nella storia”.

“L’incontro di quest’anno si svolge nella situazione geopolitica e geoeconomica più complessa degli ultimi decenni”, ha detto mercoledì il presidente del WEF Borge Brende durante una conferenza stampa. “Dovremo concentrarci ancora di più sull’impatto e sui risultati”.

Quest’anno, quindi, l’atmosfera al WEF sarà ben diversa dal solito. Gli imprenditori, le imprenditrici e i membri dell’élite russa non sono stati invitati. Il presidente ucraino Volodomyr Zelensky terrà invece un discorso virtuale e ha inviato a Davos una forte delegazione. La Cina, che ha imposto misure di confinamento nelle due città più popolose a causa della Covid-19, ha inviato solo il suo rappresentante per il cambiamento climatico, Xie Zhenhua. I principali membri della delegazione statunitense sono l’inviato speciale per il clima John Kerry e l’ex vicepresidente e paladino dell’ambientalismo Al Gore. Un netto contrasto rispetto ai tempi in cui le grandi potenze economiche mondiali mandavano, se non il proprio capo di Stato, almeno una nutrita delegazione composta dai principali esponenti del governo.

Simili assenze non si limitano a lasciare enormi lacune nel programma dell’evento, ma rispecchiano i legami sempre più tenui tra il WEF e la realtà globale, dicono analisti, analiste e osservatori e osservatrici. Invece di essere “cittadini del mondo” che si ritrovano a Davos per parlare di problemi globali, i vari Paesi tendono a rifugiarsi sempre di più nel proprio angolino, tendenza ulteriormente esacerbata dalla pandemia da Covid e dalle pesanti conseguenze economiche dell’invasione russa dell’Ucraina, due eventi catastrofici che all’ultima riunione del WEF nessuno avrebbe potuto prevedere.

“Oggi viviamo in un mondo completamente diverso”, sostiene David Bach, esperto di politiche economiche della IDM Business School. “Un mondo di regioni e blocchi contrapposti che hanno implicazioni di vasta portata non solo sulle politiche internazionali e sull’economia globale, ma anche sulle strategie imprenditoriali”.

Il campione della globalizzazione

Alla nascita del Forum economico mondiale, negli anni Settanta, la Guerra fredda aveva causato profonde divisioni ideologiche a livello globale. L’appuntamento annuale a Davos divenne uno degli unici forum capaci di combinare visioni del mondo molto diverse tra loro, costruito su quello che il WEF chiama “lo spirito di Davos”, cioè il concetto di “partecipazione, collaborazione e scambi amichevoli tra più partecipanti”.

Con l’affermarsi del liberismo economico, il Forum è divenuto sinonimo del libero commercio e dell’efficienza finanziaria che hanno definito la globalizzazione degli anni Ottanta e Novanta, favorendo forti guadagni fino all’inizio degli anni Duemila e aiutando milioni di persone a uscire dalla povertà tramite l’integrazione della Cina e degli ex Stati sovietici nell’economia globale.

“La forte globalizzazione registrata a livello dei commerci dopo che la Cina è entrata a far parte del sistema commerciale mondiale si è stabilizzata una decina di anni fa”, spiega David Dorn, professore di globalizzazione e mercati del lavoro all’Università di Zurigo.

Ora che l’euforia per i guadagni portati dalla globalizzazione è un po’ scemata, le forze che vi si oppongono hanno acquistato nuovo vigore. L’aumento del divario tra ricchi e poveri ha provocato rabbia e risentimento. L’outsourcing ha portato allo sfruttamento della manodopera in Paesi con meno tutele in materia di diritti dei lavoratori. L’impiego di filiere produttive sempre più rapide e complesse ha creato danni ambientali irreversibili. Il cambio di secolo ha visto scoppiare violente proteste contro il WEF e il suo club dei miliardari, divenuto emblema di tutti i problemi legati alla globalizzazione.

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Negli anni, il Forum ha cercato di mitigare le contestazioni invitando nella propria cerchia anche persone di ideologie opposte e aggiungendo vari rappresentanti delle organizzazioni non governative al mix di CEO. Inoltre, ha organizzato eventi WEF anche in altre parti del mondo, da Dubai a Città del Capo a Tientsin, ha riformulato la retorica capitalista per renderla più inclusiva e ha spinto le aziende a occuparsi di problemi sociali con sessioni incentrate su come evitare una crisi alimentare, mettere fine alla schiavitù e affrontare il cambiamento climatico.

In più, ha creato un Open ForumCollegamento esterno aperto al pubblico (perlomeno a chi si trova a Davos) per coinvolgerlo nelle questioni in agenda.

Nel frattempo, le economie sono divenute ancora più interconnesse e interdipendenti, con filiere sempre più lunghe e complesse, sostenute da grandi progressi tecnologici.

Man mano che le multinazionali in grado di trasportare merci in ogni angolo del mondo si sono fatte più potenti, i governi si sono indeboliti. I cittadini e le cittadine delle singole nazioni si sono trasformati in consumatori e consumatrici globali, aveva scritto il politologo Samuel Huntington in un saggioCollegamento esterno del 2004 intitolato “The Denationalisation of the American Elite” (La denazionalizzazione dell’élite americana). Quelli che Huntington chiamava “gli uomini di Davos”, “lavoratori altamente qualificati e specializzati” o “cosmocrati”, una classe emergente alimentata dalla connettività globale, venivano considerati il problema.

Le reazioni negative alla globalizzazione non sono diminuite, anzi, ne è nato un movimento di protesta radicato in una retorica populista e nazionalista.

“Ormai regna la sensazione diffusa che a comandare sia l’élite cosmopolita, parte di Wall Street e di Hollywood. Leader come Donald Trump negli Stati Uniti o Marie le Pen in Francia hanno saputo sfruttare il senso di esclusione delle persone”, afferma Daniel Warner, politologo svizzero-americano ed ex vicedirettore del Graduate Institute di Ginevra.

Altri sviluppi

Il punto di rottura

Le prime reazioni negative, tuttavia, sono state niente rispetto a ciò che sarebbe arrivato in seguito. La guerra in Ucraina e la pandemia sono solo le ultime crisi ad aver messo in discussione i meriti della visione del WEF riguardo all’ordine economico mondiale.

L’ultima volta che l’élite si è riunita a Davos mancava solo un mese al momento in cui l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) avrebbe dichiarato l’epidemia di coronavirus ufficialmente una pandemia. Nelle sale del centro congressi di Davos giravano solo voci di una crisi sanitaria a Wuhan. Da allora, la pandemia ha stravolto le vite della popolazione in quasi tutti i Paesi e spinto il WEF ad annullare il proprio ritrovo annuale in Svizzera per due anni di fila. Negli oltre 50 anni di storia del Forum, è stata la prima volta che gli eventi mondiali lo hanno portato a cancellare l’evento.

Quando si è cominciato a parlare del programma di un possibile incontro a Davos in gennaio, l’invasione russa dell’Ucraina sembrava ancora molto improbabile. Adattandosi al drammatico evolversi delle circostanze, il WEF ha poi modificato il tema dell’evento 2022 da “Collaborare per una rinnovata fiducia” a “Una svolta nella storia: politiche governative e strategie imprenditoriali”.

“Quella a cui stiamo assistendo è una globalizzazione inversa”, spiega Warner. “In certi Paesi si è verificato un ritorno a un nazionalismo aggressivo, dai Gilets Jaunes [i gilet gialli francesi] a [il presidente russo] Vladimir Putin, almeno in una certa misura. La gente si sente sempre più tagliata fuori, senza alcun legame emotivo con la globalizzazione”.

Le forniture di beni fondamentali come farmaci, grano e olio si sono fatte discontinue, esacerbando le diseguaglianze già esistenti. Nonostante gli appelli per rendere cure e vaccini contro il Covid disponibili a livello globale, i vari Paesi del mondo si sono pestati i piedi a vicenda per essere i primi a riceverli. Se per i miliardari e le miliardarie non è cambiato molto, non si può dire lo stesso dei milioni di persone che hanno faticato a permettersi le cure disponibiliCollegamento esterno.

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Dall’inizio della guerra in Ucraina, due dei principali Paesi esportatori di grano sono stati destabilizzati dalle sanzioni e dai combattimenti. Il Programma alimentare mondiale stima che il conflitto e il relativo contraccolpo sui prezzi di carburanti e beni alimentari porteranno 47 milioni di persone sull’orlo della fame.

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Di fronte a queste crisi, oltre che all’emergenza climatica, molti Paesi si sono chiusi in sé stessi, cercando di difendere le proprie risorse e la propria popolazione tramite l’imposizione di blocchi sulle esportazioni e il sostegno delle industrie locali.

“La storia della globalizzazione è sempre stata un gran tira e molla tra chi favorisce una maggiore integrazione e apertura e chi invece vi si oppone, come in tutta la storia del libero commercio”, sottolinea Bach. +Al momento le forze a favore della deglobalizzazione sono più forti perché non includono più solo demagoghi e populisti… I blocchi delle filiere provocati prima dalla pandemia e poi dalla guerra sono una realtà per tutti”.

I dubbi dei vincitori

Persino chi può trarre vantaggio dalla globalizzazione – quindi le multinazionali – si trova in difficoltà su certe tematiche, oltre a subire le pressioni di dipendenti, clienti e governi, nonché dei propri azionisti e azioniste, per schierarsi da un lato o dall’altro, man mano che la geopolitica divide il mondo in blocchi commerciali sempre più definiti.

“Oggi una multinazionale non può più pensare di espandersi nel Paese X o nel Paese Y liberamente”, dice Warner. Le aziende si troveranno ad affrontare sempre più casi in cui, come per la Russia o per la Cina, fare affari può comportare un forte prezzo da pagare. Christoph Franz, presidente del consiglio di amministrazione del colosso farmaceutico svizzero Roche, ha spiegato a SWI swissinfo.ch che l’azienda sta assistendo a una creazione di valore sempre più localizzata e che si aspetta che le imprese valuteranno più apertamente i rischi della globalizzazione, “attribuendo valori diversi alla sicurezza delle filiere, d’ora in avanti”.

“Molti esponenti politici e leader d’impresa prendono le parti della deglobalizzazione perché la trovano economicamente o politicamente vantaggiosa.”

David Bach, esperto di politiche economiche della IDM Business School

Agli occhi dei CEO, districarsi tra sanzioni e interruzioni delle filiere di produzione non è una semplice seccatura, ma qualcosa che mette in discussione molti dei principi fondamentali che hanno orientato le decisioni imprenditoriali degli ultimi decenni. Per fare affari con la seconda potenza economica mondiale, le aziende devono adeguarsi sempre di più ai piani di Xi Jinping per rendere la Cina indipendente dall’Occidente, raggiungere l’autosufficienza e creare un ordine economico incentrato sull’economia cinese.

“Molti esponenti politici e leader d’impresa prendono le parti della deglobalizzazione perché la trovano economicamente o politicamente vantaggiosa”, spiega Bach.

Tanti, nel mondo, auspicano un approccio diverso, con paradigmi diversi, e non solo tra chi protesta contro la globalizzazione. Paesi come la Cina vogliono ridefinire l’ordine mondiale, mentre le aziende con clientela e personale sparsi in diverse parti del globo cercano delle nuove modalità di fare affari.

“L’immagine del villaggio globale oggi non esiste più”, spiega Warner. “L’idea di mettere insieme esponenti del mondo politico e imprenditoriale è spesso considerata elitista e molti non sono più convinti che queste persone possano risolvere il problema e favorire la pace”.

Il Forum economico mondiale a una svolta

Con lo “spirito di Davos” così minacciato, il WEF sarà ancora in grado di risolvere i problemi posti dalla globalizzazione?

“Il WEF ha ancora molto da offrire, ma se si ostina a rimanere un club esclusivo per persone facoltose che la gente normale non riesce a capire e a cui anzi tende ad attribuire la colpa di tanti problemi, non farà che perdere sostegni”, commenta Gretta Fenner, direttrice del Basel Institute on Governance. “Si può parlare finché si vuole, ma dove sono le azioni tangibili, dove la responsabilità per tutte le dichiarazioni e gli impegni sottoscritti dai leader durante il Forum?”.

Nonostante si sia dichiarato più inclusivo, il WEF è ancora molto costoso (tanto che per farne parte si arriva a pagare fino a 600’000 dollari l’anno) e il suo ritrovo annuale rimane un evento esclusivo, solo su invito e con importanti misure di sicurezza. Nonostante i tanti appelli sottoscritti per rallentare il cambiamento climatico, i CEO vi si recano sui loro jet privati. Alcuni degli incontri più importanti avvengono in via ufficiosa, a porte chiuse, e i badge dei partecipanti sono ancora divisi per colore a indicarne la scala gerarchica.

Questa volta, però, senza i grandi nomi e le potenze che in genere attirano l’attenzione, è possibile che venga dedicato più tempo a voci e prospettive diverse. La GreciaCollegamento esterno ha annunciato che per la prima volta sarà presente con la Greek House Davos , mentre l’India ha promosso diversi eventi nella settimana che precede il Forum. Il continente africano è presente con la delegazione di più alto livello di sempre, con sette capi di Stato e decine di ministri.

“Considerato che al momento il mondo è in difficoltà su diversi fronti, quella di mettere insieme diverse teste per confrontarsi su alcuni dei problemi più pressanti mi sembra una buona idea”, dice Bach. “Ciò non significa che io abbia chissà quali aspettative sulla nostra capacità di trovare soluzioni ai problemi più urgenti dell’umanità, ma penso che ritrovarsi faccia a faccia possa rivelarsi positivo… [e] che l’impegno combinato di chi parteciperà al WEF possa davvero fare la differenza”.

traduzione dall’inglese: Camilla Pieretti

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