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«A volte ci si chiede dove sia l’umanità in Siria»

L'inverno rende le condizioni di vita nei campi profughi in Siria ancora più difficili, come qui a Jerjnaz, vicino ad Aleppo. Reuters

Un accesso incondizionato a tutte le zone di conflitto: da oltre cinque anni il Comitato internazionale della Croce rossa e le altre organizzazioni umanitarie attive nell’inferno siriano rivendicano questo diritto elementare. E mentre i negoziati per una soluzione politica sono a uno stallo, la situazione in Siria continua a deteriorarsi. 

Mercoledì 3 febbraio: i negoziati di Ginevra 3 sulla Siria vengono sospesi, proprio mentre il regime di Damasco – col sostegno dell’aviazione russa – lanciava una vasta offensiva ad Aleppo.

Gli Stati Uniti e la Francia hanno condannato i bombardamenti, che avrebbero come unico obiettivo, o quasi, i gruppi ribelli e i civili e sarebbero “in parte responsabili” della sospensione delle trattative di Ginevra.

Al termine di sei giorni di negoziati, durante i quali regime e opposizione non si sono mai incontrati direttamente, sei giorni di tergiversazioni e di appuntamenti annullati o posticipati, l’emissario ONU Staffan de Mistura ha dunque annunciato una “pausa” nel processo di Ginevra 3, che dovrebbe riprendere – se mai riprenderà – il 25 febbraio.

Dopo il fallimento di Ginevra 1 e 2, questi negoziati avrebbero dovuto permettere alle diverse parti in conflitto di discutere per avviare un processo politico e metter fine a una guerra che in cinque anni ha fatto oltre 260mila morti e milioni di profughi.

Robert Mardini – direttore regionale del CICR per il Vicino e Medio Oriente – sottolinea l’importanza di soccorrere le numerose vittime del conflitto e i villaggi assediati. Intervista.

swissinfo.ch: Il conflitto in Siria dura da quasi cinque anni. L’intensità dei combattimenti tende a crescere o a diminuire?

R. M.: L’impatto sulla popolazione è tuttora devastante. Parlare di una “catastrofe” non è sufficiente per descrivere ciò che sta accadendo. Penso che oggi sia estremamente difficile trovare una famiglia siriana che non sia stata colpita dal conflitto. I combattimenti sono ancora molto intensi e negli ultimi mesi si è assistito a una nuova impennata.

La guerra continua ad uccidere, a ferire, a mutilare, a distruggere infrastrutture essenziali, come i serbatoi d’acqua, gli ospedali, le scuole. Continua a costringere la popolazione a lasciare le proprie case, a fuggire i combattimenti non solo una volta, ma due, tre, quattro o cinque.

swissinfo.ch: Negli ultimi tempi si è parlato molto di Madaya, una delle città o zone assediate in Siria. L’assedio è una delle caratteristiche di questa fase del conflitto?

R. M.: Purtroppo l’arma dell’assedio c’è sempre stata e non è un fenomeno specifico alla Siria. Penso ad esempio alla città di Taïz, nello Yemen, che oggi vive una situazione analoga. L’impatto sui civili è sempre lo stesso. Recentemente, i casi di Madaya, Foua e Kefraya sono finiti sulle prime pagine dei giornali e ciò ha fatto scattare l’allarme tra la comunità internazionale.

Le nostre squadre, coi volontari della Mezzaluna rossa siriana, sono entrate in queste zone e vi hanno trovato condizioni di miseria insostenibili: persone scheletriche e affamate; bambini, donne e anziani tra la vita e la morte. E soprattutto, al di là della carenza di tutto (era da quattro mesi che non vedevano un pezzo di pane, senza parlare delle cure totalmente inesistenti), queste persone si sono sentite abbandonate dal mondo.

Al CICR siamo consapevoli che mettere a disposizione alcuni camion con alimenti e materiale sanitario è un apporto estremamente modesto, anche se ha permesso di salvare delle vite. E non è certo sufficiente andare in questi luoghi una volta sola. Per avere un impatto, dobbiamo rifornire queste popolazioni in modo ripetuto. Ma ci sono molti Madaya in Siria, dove i civili continuano a pagare un pesante tributo. A volte ci si chiede dove sia l’umanità in tutto questo…

swissinfo.ch: Il CICR chiede dunque un accesso umanitario regolare e incondizionato a tutte le zone del conflitto?

R. M.: Questa richiesta è stata presentata in modo energico, senza ambivalenza e ha trovato l’appoggio delle agenzie dell’ONU. Chiediamo anche la fine degli assedi, strumenti medievali il cui obiettivo è far morire la gente di fame e privarla delle esigenze vitali.

I problemi di accesso che incontriamo sul terreno sono legati a una combinazione di fattori: l’intensità del conflitto, la moltitudine di attori armati, il fatto che lo spazio aereo è sempre più affollato, con bombardamenti che rendono tutto più difficile. E poi le parti in conflitto restano intimamente convinte che l’unica soluzione sia quella militare. Dunque le prospettive non sono incoraggianti.

Eppure ciò che chiediamo è semplice: nell’attesa di una soluzione politica, il rispetto del Diritto internazionale umanitario non può essere negoziabile. Purtroppo negli ultimi cinque anni è stato violato da tutte le parti in conflitto. Chiediamo un’azione convergente, sincera e seria di tutti gli attori, inclusi i paesi che hanno un’influenza su ciò che sta accadendo in Siria, su aspetti semplici come “non sparate sulle ambulanze, i medici, gli ospedali; non bombardate i serbatoi di acqua potabile, le scuole o i posti di salute”.

swissinfo.ch: Che contatti avete coi ribelli del cosiddetto Stato Islamico?

R. M.: Il nostro ruolo di delegati è quello di mantenere un contatto con tutte le parti in conflitto. Ma oggi non abbiamo più alcun dialogo strutturato con lo Stato Islamico. Siamo estremamente preoccupati per le condizioni umanitarie nei territori controllati da questo gruppo, dove vivono circa sei milioni di persone, tra la Siria e l’Iraq.

Riusciamo in un qualche modo a dare un contributo umanitario in queste zone, grazie alla collaborazione coi volontari della Mezzaluna siriana e con le autorità locali. Nel 2015 abbiamo potuto svolgere delle attività nelle zone controllate, in un settore vitale come quello dell’acqua, e siamo piuttosto fiduciosi dell’impatto del nostro intervento. Ma dobbiamo dar prova di umiltà: questi successi sono molto modesti rispetto ai bisogni che ha la gente in queste regioni.

swissinfo.ch: Si parla soprattutto della Siria. La situazione è meno grave in Iraq?

R. M.: È difficile paragonare ciò che accade in un paese e in un altro e le sofferenze di cui sono vittime le popolazioni. Si potrebbe ad esempio citare anche lo Yemen. In Iraq, il conflitto raggiunge a volte un’intensità comparabile a quella della Siria. L’Iraq è molto meno mediatizzato, ma è confrontato anch’esso con situazioni umanitarie allarmanti e catastrofiche. Si parla di 3,4 milioni di sfollati dal dicembre 2013. Assistiamo a combattimenti molto violenti tra la coalizione, l’esercito iracheno e alcuni gruppi armati come lo Stato Islamico. E questo anche in regioni che sono state “liberate”, per così dire.

swissinfo.ch: Giovedì si tenuta a Londra la Conferenza dei paesi donatori per la Siria. La crisi dei rifugiati inciterà gli Stati a mantenere le loro promesse finanziarie?

R. M.: Bisogna prima di tutto comprendere che, obiettivamente, i bisogni umanitari aumentano di anno in anno. Perché ci sono sempre meno infrastrutture, acqua, ospedali, centri di salute, medicamenti… L’economia va di male in peggio: il potere d’acquisto delle persone diminuisce, aumentano i bisogni e il numero di persone colpite dalla guerra. È dunque normale e logico che i bisogni delle organizzazioni umanitarie crescano di pari passo.

Ma non è solo una questione di fondi, anche se questi sono molto importanti. A Londra si sono riuniti i leader politici e il nostro messaggio è stato chiaro: bisogna essere più ambiziosi per trovare una soluzione al conflitto. E anche per sostenere i paesi limitrofi, chiamati ad ospitare milioni di rifugiati, un fattore destabilizzante. La posta in gioco è enorme e l’aiuto umanitario, da solo, non può risolvere il problema.

Per quanto riguarda i migranti in Europa, anche se le cifre sono impressionanti, restano marginali rispetto al numero di persone accolte da Libano, Giordania e Turchia. L’Europa ha i mezzi per accogliere le persone che fuggono dai combattimenti e offrire loro la protezione di cui hanno bisogno.

E bisogna essere chiari su questo punto: per un siriano, come per qualunque cittadino del mondo, la decisione di lasciare il suo paese di domicilio non è mai presa alla leggera. È sempre difficile. La gente parte quando non ha più altra scelta, quando la situazione è diventata insostenibile: violenze, situazione economica difficile, ma anche insicurezza, mancanza di elettricità, acqua, accesso alle cure, all’educazione… È questo a spingere la gente a partire.

 

Le promesse dei donatori

Oltre 10 miliardi di dollari: è, secondo David Cameron, la somma promessa dai Paesi che partecipano alla conferenza dei donatori per la Siria, tenutasi giovedì 4 febbraio a Londra. È “la più grande somma mai riunita in un solo giorno, quale risposta ad una crisi umanitaria”, si è rallegrato il primo ministro britannico.

Sui 10 miliardi promessi, 5,6 dovranno essere versati nel 2016 e il saldo entro il 2020.

Le Nazioni Unite avevano lanciato un appello per 7,73 miliardi di fondi, al fine di soddisfare le esigenze più urgenti dei sei milioni di sfollati e quattro milioni di profughi, del solo 2016.

I Paesi della regione, che ospitano la maggior parte dei profughi, chiedono ulteriori 1,2 miliardi.

“Il fatto che delle persone siano ridotte a mangiare erba e uccidere animali randagi deve colpire la coscienza di tutti i popoli civili e ricordarci che tutti abbiamo il dovere di porvi rimedio”, ha detto il Segretario di Stato degli Stati Uniti, John Kerry, parlando della situazione nelle città assediate.

Da parte svizzera, il presidente della Confederazione Johann Schneider-Ammann ha ringraziato i cittadini degli Stati vicini alla Siria per la loro solidarietà con le persone colpite dalla guerra civile. La comunità internazionale deve sostenerli, ha dichiarato. L’impegno elvetico in Siria e nei paesi vicini dall’inizio della crisi ammonta a oltre 250 milioni di franchi. La Svizzera sbloccherà quest’anno 50 milioni di franchi per le vittime del conflitto.

I costi della guerra in Siria e del suo impatto nei paesi della regione si aggirano sui 35 miliardi di dollari, secondo le stime pubblicate il 4 febbraio dalla Banca mondiale. Questa cifra rappresenta il mancato guadagno economico subito dalla Siria e da un gruppo di cinque Paesi (Turchia, Libano, Giordania, Egitto e Iraq). Questi sono stati più o meno direttamente colpiti dal conflitto siriano, che ha fatto circa 260mila morti in cinque anni.

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