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Hemingway di acqua dolce

copertina di un libro
Silvia Pareschi si è cimentata in una nuova traduzione de "Il vecchio e il mare", romanzo che nel 1953 valse il Premio Pulitzer a Ernest Hemingway. tvsvizzera

Vive sul Lago Maggiore, nella zona di confine tra Ticino e Italia, ed è una delle traduttrici di letteratura inglese più note: abbiamo incontrato Silvia Pareschi. 

Non c’era il mare, niente Marlin e non era nemmeno vecchio lo scrittore statunitense Ernest Hemingway quando scoprì non senza sorpresa le sponde di acqua dolce del lago Maggiore ed il Ticino, tanto da farle “entrare” in quel romanzo racconto – un cortocircuito tra questi – dal titolo “Addio alle Armi”.

Ben 92 anni dopo questa pubblicazione, da una casa su quelle stesse rive lacustri entrate nella leggenda, una traduttrice italiana ha deciso di cimentarsi in una nuova traduzione del romanzo “Il vecchio e il mare”, racconto leggendario che valse allo stesso Hemingway il premio Pulitzer nel 1953 ed il Nobel per la Letteratura nel 1954.

La traduttrice Silvia Pareschi, infatti, una delle interpreti più sensibili e note a livello internazionale di letterature anglofone che vive accanto al Ticino, sulla sponda lombarda del Lago Maggiore, si è presa la responsabilità di “svecchiare” il racconto 70 anni dopo la traduzione di Fernanda Pivano, colei che per prima tradusse l’opera con l’approvazione dello stesso Hemingway di cui era amica. Al di là della riscoperta del mito – un classico come si dice in letteratura con tanto di racconto inedito – il dialogo con Pareschi e con gli strumenti che possiede fanno emergere una “difesa” non di un carattere nazionale, ma una salvaguardia, una tutela per ciò che è una ricchezza collettiva.

tvsvizzera.it: L’italiano, signora Pareschi, a nord delle Alpi sta lentamente ma inesorabilmente perdendo terreno rispetto al tedesco o francese. Secondo lei, che ha fatto dell’uso di questa lingua una professione, è un pericolo in una nazione che ha inserito tra le sue lingue anche questa?

Silvia Pareschi: Ovviamente io rispondo da linguista e non da politica, ma credo che il plurilinguismo svizzero sia una realtà di cui andare molto fieri, soprattutto in un’epoca, come quella attuale, in cui gli stati tendono a chiudersi in un ottuso nazionalismo. Fra l’altro, se non sbaglio, l’italiano non si parla solo in Ticino e nel Grigioni italiano, ma è diffuso anche nei cantoni interni, visto che il 53% degli italofoni vive fuori dalla Svizzera italiana. Per questo mi auguro che un paese come la Svizzera, che è il secondo al mondo per presenza italofona, ambisca a preservare la lingua italiana come uno dei pilastri dell’identità elvetica.

Thomas Mann fa dire al cavaliere d’industria Felix Krull (Confessioni del cavaliere dell’industria Felix Krull) che “gli angeli nel cielo parlano italiano”: ma perché non potrebbero parlare inglese, francese, russo, cinese o hindu? Cosa rende questa lingua unica?

Quante citazioni potremmo fare, oltre a questa di Mann… da Goethe a Madame de Staël, da Keats a Mandel’štam, la storia della letteratura è piena di scrittori che lodano la nostra bella lingua. Certo, gli angeli del cielo potrebbero parlare qualunque altra lingua, ma ciò che rende unico l’italiano è la sua famosa e tanto decantata musicalità, che deriva, molto concretamente, dal suo sistema vocalico, dalla mobilità dell’accento, dall’uso delle consonanti doppie, dall’elisione, dall’intonazione… tutti elementi che rendevano l’italiano la lingua più adatta alla musica, come diceva Rousseau. E non dimentichiamo che l’italiano è una lingua molto studiata all’estero – alcuni dicono che sia la quarta lingua più studiata al mondo – e questo non certo per via della sua diffusione geografica, ma proprio perché tante persone la trovano bellissima.

Nel lavoro di traduzione, quanto si perde e quanto si “guadagna” con una lingua come l’italiano, fatta salva la fedeltà al testo dell’autore?

La questione di ciò che si perde e si guadagna in una traduzione è piuttosto tecnica e meriterebbe una spiegazione molto più approfondita, anche perché dipende dal rapporto di vicinanza o distanza che esiste tra la lingua – e la cultura – di partenza e quella di arrivo: un conto è tradurre in italiano un testo spagnolo, un altro è tradurne uno giapponese, per intenderci. Io traduco dall’inglese, quindi da una distanza non troppo grande dal punto di vista linguistico e culturale, ma posso dire che una cosa che si perde, per esempio, è l’estrema duttilità dell’inglese nella creazione di nuove parole, visto che l’italiano su questo è un po’ più rigido, mentre ciò che si guadagna è proprio quella musicalità di cui parlavo sopra, e che a volte ha portato qualche scrittore, leggendo la mia traduzione del suo lavoro, a dire “però, in italiano suona meglio!”.

Silvia Pareschi traduce autori inglesi e statunitensi da più di vent’anni, principalmente per le case editrici Adelphi, Einaudi e Mondadori. Oltre all’intera opera di Jonathan Franzen, ha tradotto fra gli altri Ernest Hemingway, Don DeLillo, Cormac McCarthy, Zadie Smith, Jamaica Kincaid, Junot Díaz, E.L. Doctorow, Denis Johnson, Nathan Englander, Shirley Jackson, Amy Hempel, Annie Proulx, Colson Whitehead. È autrice della raccolta di racconti I jeans di Bruce Springsteen e altri sogni americani (Giunti). Vive sul lago Maggiore, dove è nata.

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