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Donald Trump, l’eredità di Obama e la pericolosità dell’America

Il mondo secondo Trump Limes

Donald Trump costituisce un pericolo per il mondo? E' questa la domanda che, ad una settimana dalla sua vittoria nelle presidenziali americane, rimane maggiormente frequente tra le élites e l'opinione pubblica internazionale. Da più parti ci si interroga se l'apparente volontà del presidente eletto di stravolgere l'approccio americano nei confronti del globo non produrrà effetti assai negativi, se non addirittura catastrofici. Sopravvalutando i poteri di cui dispone la Casa Bianca, misconoscendo la capacità della superpotenza di rimanere impero e ignorando gli evidenti tratti di continuità con l'amministrazione Obama.

Stando ai proclami della campagna elettorale, Trump ha intenzione di aumentare il disimpegno degli Stati Uniti dagli affari internazionali. A suo avviso Washington dovrebbe concentrarsi sulle questioni domestiche e lasciare alle potenze regionali l’incombenza di risolvere militarmente o diplomaticamente le dispute regionali. L’America dovrebbe intervenire soltanto se può trarne un beneficio commerciale e in favore di quelle nazioni che stanziano per la difesa una quota accettabile del loro pil. Scendere a patti con la Russia significherebbe usare il rivale in funzione anti-cinese, oltre che appaltare al Cremlino gran parte della lotta al terrorismo. Con l’intenzione di risparmiare i costi legati al contenimento di Mosca e proseguire il ritiro dal Medio Oriente. Mentre la minaccia di applicare notevoli dazi alle importazioni cinesi o giapponesi dovrebbe rilanciare la manifattura statunitense, la cui parziale scomparsa ha innescato il moto di protesta che ha condotto Trump alla Casa Bianca. Come l’abbandono dei trattati commerciali dovrebbe servire a proteggere l’economia nazionale, in una sorta di sbandierato protezionismo.

Tuttavia il presidente americano non è un imperatore e i suoi poteri sono molto limitati. Trump non sarebbe in grado di realizzare unilateralmente nessuna delle promesse sopraelencate. Avrà piuttosto bisogno del (tutt’altro che scontato) sostegno del Congresso, di gran lunga l’istituzione più potente del paese, e degli apparati (dipartimento di Stato, Pentagono, Cia etc.) che materialmente attuano la politica estera e commerciale. Anzi, come sempre capitato nella storia, sarà proprio lo Stato profondo a tramutare in imperiale l’approccio puramente mercantilistico della Casa Bianca. Giacché la dismissione del liberismo e della globalizzazione segnerebbe anche la fine della pax americana, ovvero del dominio statunitense sul globo, sviluppo negativo tanto per il presidente che per gli apparati.

Gli Stati Uniti proseguiranno nella loro fase di introversione, perché questo pretende la pancia del paese, colpita dagli effetti collaterali della globalizzazione e dall’inutilità delle campagne mediorientali del decennio scorso. Ma non rinnegheranno la loro natura imperiale, che prevede interventi all’estero per ragioni strategiche e non puramente commerciali. Così Washington continuerà a garantire (almeno virtualmente) la difesa del continente europeo, anzitutto per alimentarne la dipendenza dalla superpotenza, sebbene questo non comporti concreti benefici materiali. E continuerà a battersi per mantenere divise Berlino e Mosca, storico proposito della strategia americana, indipendentemente dalla volontà di Trump di annullare l’ostilità russo-americana. Anche la retorica protezionistica nei confronti della Cina si risolverà probabilmente nell’accusa ai danni di Pechino di manipolare lo yuan, ma non comporterà dazi elevati perché questo porrebbe in pericolo la tenuta del debito pubblico americano.

Di fatto la prossima amministrazione proseguirà nel solco segnato nell’era Obama, cui si aggiungerà la rinuncia a promuovere il libero commercio ed una narrazione maggiormente esplicita delle intenzioni americane (o meno sofisticata). Del resto lo stesso Obama nel 2009 promosse il reset con la Russia in ottica anti-cinese, per poi vederlo naufragare nel corso degli anni, e la ricerca di un minimalista equilibrio di potenza in Medio Oriente. Nel caso di Trump, piuttosto che interrogarsi sulla sua pericolosità, il mondo dovrebbe chiedersi se è preferibile avere a che fare con una superpotenza che interviene militarmente ovunque, come e quando vuole, oppure con una superpotenza che intende parzialmente ritrarsi dagli affari internazionali. Il nocciolo della questione è tutto qui.

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