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Fotografia e scultura: un’unione che ridefinisce un linguaggio

"Le tre sorelle" del 1984, Peter Fischli e David Weiss Peter Fischli/David Weiss/Kunsthaus Zürich

Fino al 15 maggio il Kunsthaus di Zurigo propone “FotoSkulptur”, una mostra che concentrandosi sugli ultimi 70 anni di fotografia della scultura mette in luce come il connubio tra i due medium abbia radicalmente trasformato la percezione e il concetto stesso di scultura.

Per Roxana Marcoci, che ha ideato l’esposizione e ne ha curato la presentazione al Museum of Modern Art di New York nei mesi scorsi, il titolo scelto per l’allestimento zurighese coglie in modo perfetto il senso della riflessione proposta da questa mostra.

“FotoSkulptur, il titolo tedesco, dimostra precisamente che qui abbiamo davvero a che fare con un ‘matrimonio’. Perché la fotografia non è solo un medium di documentazione, è un medium di interpretazione e di analisi e anche di analisi critica. Dunque si ha veramente un’unione in cui la scultura e la fotografia danno forma l’una all’altra.”

Scultura e fotografia però non si mescolano all’interno dell’esposizione. “La mostra è unicamente fotografica” precisa Tobia Bezzola, curatore dell’allestimento zurighese. “Comunque questa è la domanda che essa pone. Cioè in che senso scultura e fotografia si sono mescolate e come è cambiata la pratica e il concetto di scultura con l’avvento della fotografia.”

La scultura, tra i primi soggetti della fotografia

Le oltre 300 foto proposte nell’esposizione -che partono dagli albori della fotografia e arrivano fino ai giorni nostri- offrono uno sguardo d’insieme e permettono di far luce sulle tappe più significative che hanno segnato l’evoluzione del concetto di scultura nell’incontro con il medium fotografico.

Il percorso si apre sottolineando come la scultura sia stata di fatto uno dei primi soggetti scelti dai fotografi. Le statue delle cattedrali francesi che compaiono nelle foto di Charles Nègre o in quelle scattate da Roger Fenton e Stephen Thompson al British Museum -tutti pionieri della fotografia-, ne costituiscono un esempio.

Ma anche le immagini scattate da André Kertész intorno agli anni ’20 negli atelier di artisti quali Léger e Zadkine, o quelle di Alfred Stieglitz che immortalano le esposizioni della Gallery 291 di New York -polo di riferimento per l’arte moderna d’inizio novecento-, mettono in risalto come la fotografia abbia giocato molto presto un ruolo fondamentale nell’analisi dell’arte.

Dal punto di visto degli scultori

La mostra non è però organizzata in modo cronologico ma combina piuttosto delle sezioni tematiche con altre monografiche, alcune delle quali, come quella dedicata ad August Rodin o a Costantin Brancusi, hanno per protagonisti degli scultori che hanno utilizzato proprio la fotografia per una interpretazione nuova della loro opera plastica.

“Col tempo si vede che la fotografia comincia a influenzare i concetti e il lavoro degli scultori e ciò già a partire da Rodin, il primo a controllare l’immagine fotografica della sua scultura”, precisa Tobia Bezzola. “E il passo successivo è Brancusi, che non concede a nessuno il permesso di scattare foto alle sue sculture ma comincia a fotografarle lui stesso.”

Nella sezione a lui dedicata risulta evidente che lo scopo di Brancusi non era proporre una rappresentazione neutra e oggettiva delle sue sculture. L’impressione che si ha è piuttosto che le sue fotografie costituiscano un lavoro autonomo che affianca l’opera plastica.

Rivoluzione dadaista e suoi echi sull’arte contemporanea

Comunque, qualche anno dopo, con Marcel Duchamp tutto sembra cambiare. “Duchamp è proprio il primo a far scoppiare il concetto di originale, di scultura, di presenza, del corpo” sottolinea Bezzola. “Egli inizia a lavorare sul corpo, comincia a scegliere invece di creare. E anche questa è una pratica profondamente fotografica. Anche il readymade, se si vuole, è un oggetto fotografico. E proprio come un fotografo sceglie un pezzo nel mondo, Duchamp sceglie un oggetto del mondo.”

Questa prassi, in uso tra i dadaisti già nei primi decenni del 900, viene ripresa nelle sue evoluzioni dall’arte contemporanea e, dagli anni ’60, comincia a influenzare tutta la pratica degli artisti della performance e del body art, cioè degli artisti che lavorano con il loro corpo, che si mettono in scena e realizzano delle azioni che vengono comunicate e rese pubbliche attraverso la fotografia.

La fotografia come forma determinante dell’opera scultorea

Qualcosa di simile accade anche con gli artisti della Land Art -movimento di arte concettuale nato negli Stati Uniti negli anni 70- che escono dagli studi e intervengono nel paesaggio con obiettivi estetici, producendo mutamenti che osservano e registrano con la fotografia o il video.

Come dimostrano gli esempi proposti, i lavori di Dennis Oppenheim, Richard Long, Michael Heizer aprono ancora un’altra prospettiva alla scultura. Questi artisti lavorano in luoghi aperti, disegnano nel terreno, spostano pietre, scavano buche, creando delle sculture intrasportabili ed effimere, che possono entrare nei musei e nelle gallerie solo grazie alla fotografia.

“Qui la fotografia determina il punto di vista sull’oggetto”, precisa Bezzola. “Non abbiamo più una scultura attorno alla quale si può girare o che si può guardare da diversi punti di vista. Ma è la fotografia a creare la forma definita e definitiva dell’opera d’arte.”

Nuova definizione o suo annullamento?

Il percorso proposto dall’esposizione parte da una nozione molto classica di scultura che non si ha l’impressione possa trasformasi in modo così radicale. Ma oltrepassate le prime sezioni ci troviamo di fronte a qualcosa di profondamente sperimentale che sbalza radicalmente ogni concetto tradizionale.

“Ciò che volevo mettere in evidenza era il punto di vista dell’arte, non del medium, perché in questa mostra sono presenti artisti che non possono essere definiti dal medium”, conclude Roxana Marcoci. “Dunque la cosa interessante è capire come un medium -in questo caso la fotografia- dia forma alla scultura. Ma allo stesso tempo anche come alla fine di questa esposizione si possa concepire un’idea nuova di cosa essa sia oggi: dunque una nuova definizione, più definizioni o l’annullamento stesso della definizione.”

“FotoSkulptur” in corso al Kunsthaus di Zurigo, rimarrà aperta fino al 15 maggio. Presentata al Museum of Modern Art di New York nei mesi scorsi, la mostra prevede solo Zurigo come unica seconda tappa.

Esposte oltre 300 foto che, a partire dagli albori della fotografia fino ai nostri giorni, mostrano come il medium fotografico abbia influenzato e ridefinito in modo creativo il concetto di scultura.

I 10 capitoli in cui è suddivisa la mostra sono: «La scultura nell’era della fotografia», «Eugène Atget: la meraviglia nel quotidiano», «Auguste Rodin: lo scultore e l’azzardo della fotografia», «Constantin Brancusi: l’atelier come groupe mobile», «Marcel Duchamp: il readymade come riproduzione», «Figure di culto culturali e politiche», «L’atelier senza pareti: la scultura in campo lungo», «Il complesso di Pigmalione: figure animate ed inanimate», «Il corpo come soggetto della scultura» e «La zuppa di Daguerre: cos’è una scultura?».

Tra fotografi, scultori e performer, sono circa un centinaio quelli proposti nella mostra. Tra essi ricordiamo: Eugène Atget, Hans Bellmer, Herbert Bayer, Constantin Brancusi, Brassaï, Manuel Alvarez Bravo, Claude Cahun, Marcel Duchamp, Peter Fischli e David Weiss, Robert Frank, David Goldblatt, Hannah Höch, André Kertész, Man Ray, Bruce Nauman, Gillian Wearing, Hannah Wilke, Iwao Yamawaki.

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