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Per la Tunisia «non è una questione di soldi, ma di dignità»

A Tunisi, un gruppo di manifestanti brucia una fotografia di Ben Ali, pochi giorni dopo la fuga dell'allora presidente, il 14 gennaio 2011. Keystone

La restituzione alla Tunisia dei fondi congelati in Svizzera appartenenti al clan Ben Ali potrebbe avvenire abbastanza rapidamente. Per la Tunisia, rientrare in possesso dei beni sottratti al paese è importante. Ma ancora più importante è fare piena luce sull'impero finanziario creato dall'ex dittatore e dalla sua cerchia e ritrovare la dignità.

«Ben Ali ha rubato. Ma la Svizzera non è anche lei un po’ criminale? Non è colpevole di ricettazione?». Il sentimento espresso da uno dei partecipanti all’atelier organizzato mercoledì 27 marzo al Forum sociale mondiale di Tunisi da Alliance Sud e da altre ONG locali è condiviso da molti tunisini.

Ad irritare è anche la presunta lentezza delle autorità giudiziarie svizzere. Nel paese che ha acceso la scintilla della Primavera araba, si ha l’impressione che la procedura per rientrare in possesso dei fondi depositati nelle banche svizzere dall’ex dittatore e dalla sua cerchia vada un po’ troppo per le lunghe.

«Per noi non è una questione di soldi, ma di dignità da recuperare», sottolinea Sami Remadi, presidente dell’Associazione tunisina per la trasparenza finanziaria (ATTF) e membro della commissione che ha investigato sulla corruzione. Attualmente sono circa 60 i milioni di franchi bloccati in Svizzera.

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Restituzione rapida

«Abbiamo buone ragioni per pensare di riuscire a procedere rapidamente alla confisca dei beni depositati in Svizzera dal clan Ben Ali», cerca di rassicurare l’ambasciatore svizzero in Tunisia Pierre Combernous, cosciente dell’«enorme frustrazione» che sta suscitando la vicenda. In quanto Stato di diritto, la Svizzera deve tuttavia rispettare i termini procedurali, sottolinea.

La Confederazione ha reagito rapidamente ed è stato il primo paese a congelare i fondi Ben Ali, appena quattro giorni dopo la sua fuga. Berna non è poi stata semplicemente a guardare. «All’inizio le nuove autorità tunisine avevano difficoltà a gestire questo dossier. Su nostra iniziativa, un ex giudice istruttore svizzero è venuto in Tunisia per aiutare a scrivere una commissione rogatoria», spiega Combernous.

«La volontà politica esiste»

A deporre in favore di una risoluzione relativamente rapida della vicenda è anche la decisione del Ministero pubblico della Confederazione di invertire l’onere della prova, come già avvenuto in passato, ad esempio per i fondi dell’ex dittatore nigeriano Sani Abacha. In altre parole, tocca agli intestatari dei fondi congelati in Svizzera provare l’origine lecita dei loro averi e non allo stato tunisino dimostrare che sono stati acquisiti illegalmente.

«In Svizzera vi è una reale volontà politica, ai più alti livelli, di far avanzare questo dossier», sottolinea l’ambasciatore.

Contrariamente a quanto accaduto per Haiti, Combernous non ritiene necessario elaborare una legge ad hoc per restituire i fondi alla Tunisia. Le norme varate per Haiti facilitano la restituzione degli averi quando il paese richiedente si trova in una situazione di dissesto. «Anche se lo Stato tunisino ha delle disfunzioni, non può essere assolutamente paragonato ad Haiti», osserva l’ambasciatore svizzero, precisando che una nuova legge non farebbe che rallentare il processo.

Cooperazione buona

Sami Remadi si dice piuttosto soddisfatto di quanto fatto finora dalla Svizzera. «Le promesse sono state mantenute – osserva. Ci ha fatto particolarmente piacere che il Ministero pubblico della Confederazione abbia deciso di aprire una procedura indipendente [ndr: un’inchiesta penale per presunto riciclaggio di denaro e partecipazione e sostegno di organizzazioni criminose contro persone vicine agli ex detentori del potere in Tunisia]».

Lo stesso non può dirsi di altri paesi, sottolinea questo medico che ha esercitato per dieci anni a Ginevra. La Gran Bretagna e gli Emirati Arabi Uniti praticamente non collaborano. In Francia vi sono solo un giudice e un poliziotto che si occupano del dossier e Parigi «si è accontentata di stilare la lista degli immobili del clan acquistati nel paese». Con la Germania la cooperazione è insufficiente. Più positive le esperienze con il Belgio e il Libano. Il paese dei Cedri dovrebbe prossimamente restituire i fondi congelati.

Anche con la Svizzera vi sono però punti dolenti. L’Autorità federale di vigilanza sui mercati finanziari svizzera (FINMA) ha esaminato solo venti istituti finanziari, rilevando irregolarità in quattro di essi, stando al rapporto presentato nel novembre 2011. Per Remadi, non è escluso che fondi illeciti di origine tunisina possano trovarsi in altre banche.

Una goccia nel mare?

Secondo il presidente dell’ATTF, i beni “svizzeri” del clan Ben Ali sono infatti ben più consistenti. «Abbiamo potuto stabilire che la fortuna accumulata da Ben Ali e dalla sua cerchia si aggira attorno ai 17 miliardi di dollari. Dove sono tutti questi soldi? In Tunisia non li abbiamo trovati, quindi non mi si venga a dire che in Svizzera vi sono solo 60 milioni», dichiara Remadi.

L’ambasciatore svizzero Pierre Combernous osserva dal canto suo che i fondi sono stati congelati sulla base della lista di nominativi presentata dalla Tunisia. «Abbiamo chiesto alle autorità tunisine di completare questa lista, non spetta a noi farlo», dichiara.

Il problema è la mancanza di prove: «Tutto ciò che abbiamo è quello che la commissione nazionale di lotta contro la corruzione ha trovato nel palazzo presidenziale. La commissione rogatoria si basa su questi documenti», indica Remadi. In particolare si sa poco o nulla della rete di società offshore creata dal clan Ben Ali. Sulla lista presentata alle autorità svizzere ne figura ad esempio solo una. «Le prove si trovano essenzialmente in Svizzera e alla Confederazione è proprio questo che chiediamo: darci un sostegno supplementare per poter far luce su tutta questa rete finanziaria».

«Più che agli aiuti per lo sviluppo forniti dalla Svizzera, la Tunisia attribuirà molta importanza alla rivelazione dei conti e delle società offshore della famiglia Ben Ali – conclude Remadi. Quando il dossier sarà concluso potremo dire al popolo tunisino “ecco quello che la Svizzera ha fatto per noi”. Ed è così che l’amicizia tra i due paesi ne uscirà rafforzata».

Il 13 marzo scorso il parlamento svizzero ha approvato un accordo sulla promozione e la protezione reciproca degli investimenti con la Tunisia. Questo trattato fissa le regole per gli investimenti nel paese partner, il trasferimento di capitali e dei redditi, le indennità in caso di esproprio e per la risoluzione di eventuali vertenze.

I partiti dello schieramento rosso-verde avrebbero voluto includere nell’intesa esigenze di carattere sociale, come la protezione dei lavoratori, dell’ambiente o la responsabilità sociale degli imprenditori. Il parlamento ha però deciso altrimenti, ritenendo che la rapida conclusione dell’accordo contribuisce all’insediamento in Tunisia di strutture economiche e sociali stabili e permette di rispondere alle esigenze degli investitori svizzeri. Il ministro dell’economia Johann Schneider-Amman aveva dal canto suo sottolineato che per rinegoziare l’accordo ci sarebbero voluti ancora due o tre anni.

Il tema è stato anche al centro di un dibattito organizzato giovedì 28 marzo dall’ONG svizzera Alliance Sud in occasione del Forum sociale mondiale in corso a Tunisi.

L’organizzazione, che considera questo tipo di accordi «un’eredità dell’epoca coloniale», poiché danno dei diritti agli investitori e degli obblighi ai paesi d’accoglienza, aveva chiesto al parlamento – senza successo – di rivedere l’intesa con la Tunisia.

In particolare erano stati chiesti tre cambiamenti: escludere in maniera esplicita le misure politiche dello Stato ospite per la protezione dell’ambiente e della salute dalle espropriazioni che danno diritto a risarcimenti; precisare la clausola del «trattamento giusto ed equo» degli investitori; infine, in caso di controversia, dare la priorità ai tribunali locali e riformare in profondità le procedure d’arbitraggio.

A sostegno delle sue tesi, Alliance Sud aveva presentato il caso della Philip Morris in Uruguay. Nel 2010, la multinazionale del tabacco, con sede in Svizzera, aveva sporto denuncia presso il tribunale arbitrale della Banca mondiale contro l’Uruguay perché aveva introdotto regole più severe per limitare il consumo di tabacco, chiedendo circa due miliardi di indennizzo. La Philip Morris aveva invocato quattro articoli relativi all’accordo di protezione degli investimenti con la Svizzera, in particolare quelli sull’«espropriazione indiretta» e sul «trattamento giusto ed equo degli investitori». La procedura è tuttora in corso.

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