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La rete dei salafiti in Svizzera

Un ragazzo dispone dei libri del Corano su uno stand
Saïda Keller-Messahli vorrebbe vietare anche in Svizzera la distribuzione gratuita del Corano nel quadro dell'azione "Lies!". Getty Images

Nel suo nuovo libro Saïda Keller-Messahli descrive la Svizzera come una «piattaforma di scambio islamista». L’esperta di islam critica le autorità che ancora ritengono un predicatore radicale come Abu Ramadan un «caso singolo».

Saïda Keller-Messahli, cosa le è passato per la testa quando ha sentito parlare del caso Abu Ramadan?

Saïda Keller-Messahli: Quello che dice non mi ha sorpreso. Tendenzialmente ci sono molti predicatori simili in Svizzera. L’atmosfera totalitaria nelle moschee ha inoltre fatto sì che nessuno si sia alzato per contraddirlo. Tutti si sono comportati come pecore.

(…)

Il sindaco di Bienne Erich Fehr ha definito la vicenda di Abu Ramadan un «caso singolo». Perché agitarsi tanto dunque?

(scuote la testa) Critico proprio i politici che ragionano così. Non capiscono di cosa si tratti. Abu Ramadan non è assolutamente un caso unico. Esistono strutture che hanno l’obiettivo di imporci qualcosa, con qualsiasi mezzo. Le teste pensanti dietro tutto questo cercano di influenzare le nostre istituzioni.

Il Ministero pubblico indaga sul predicatore di Bienne

Il predicatore Abu Ramadan della moschea Ar’Rahman di Bienne è finito nel mirino del Ministero pubblico bernese, che ha avviato un esame preliminare. I fatti saranno verificati a livello penale e se dovessero sussistere sufficienti sospetti potrebbe essere aperta un’inchiesta formale. Lo ha indicato la settimana scorsa il quotidiano svizzero tedesco Blick, citando un portavoce della procura generale.

Il caso Abu Ramadan rilancia il tema della formazione degli imam in Svizzera. Può essere una soluzione al problema?

Può contribuire a rendere meno acuto il problema. Abbiamo bisogno di imam che sono andati a scuola qui, che hanno un legame con la nostra società, che conoscono la nostra cultura e che si rivolgono ai fedeli in questo senso e con questo spirito. Ma tutto questo non basta. Dobbiamo adottare anche altre misure.

Quali?

Guardiamo all’esempio dell’Austria. Lì da oltre cent’anni c’è una legge sull’islam, riformata di recente. È uno strumento efficace e adottato nel rispetto dello stato di diritto, che regola il modo di rapportarsi all’islam organizzato: il finanziamento dall’estero delle moschee è vietato; le azioni di distribuzione del Corano su suolo pubblico sono proibite; l’occultamento del viso in uno spazio pubblico è proibito; la formazione degli imam è regolata; asili islamici clandestini senza autorizzazione e al di fuori di ogni controllo democratico – come ne esistono molti in Svizzera – sono proibiti.

La settimana scorsa si è saputo che due giovani donne hanno raggiunto l’Isis dopo aver frequentato la moschea Ar’Rahman.

È una storia molto triste, ma neppure questa mi ha stupito. Considerando i discorsi che vengono fatti in queste moschee mi stupisce piuttosto che non ci sia un numero maggiore di giovani che segue questa strada.

Le moschee hanno davvero un ruolo così importante?

Molto importante. Nelle moschee c’è un’atmosfera tale che mette a tacere il pensiero critico. A questo serve l’ordine interno: i fedeli non possono dire niente e vengono intontiti con messaggi urlati. Si tratta di una struttura autoritaria, anzi quasi militare e totalitaria. E le donne sono in ogni caso assenti, nascoste da qualche parte in un locale. Chi si sottomette a questa struttura considera una verità quello che vi viene raccontato.

Ferah Ulucay, la responsabile per le donne del Consiglio centrale islamico della Svizzera, conosceva molto bene le due ragazze, ma apparentemente non sapeva nulla del loro progetto di raggiungere l’Isis…

Di quello che dicono i salafiti del Ccis non credo una parola.

Ulucay giustifica la radicalizzazione delle due donne tra l’altro con l’«islamofobia» della Svizzera.

È un discorso vittimista. È il discorso di tutti gli islamisti. Deve mettere in questione anche sé stessa e non cercare le colpe sempre presso gli altri.

Saïda Keller-Messahli sorride con una mano appoggiata a un albero
Saïda Keller-Messahli, nata nel 1957 in Tunisia, ha trascorso parte della sua infanzia a Grindelwald, nel canton Berna. Ha studiato romanistica, letteratura inglese e scienze cinematografiche a Zurigo. È presidente del Forum per un islam progressista e lavora come pubblicista indipendente. Nel 2016 ha ricevuto il premio per i diritti umani della Società internazionale per i diritti umani. Keystone

La ricerca di lavoro per una donna che porta il velo non è facile.

Sto seguendo privatamente un caso del genere. Se una giovane donna è disposta a rinunciare a un apprendistato solo a causa del velo, deve chiedersi cosa vuole davvero. Nel mio caso la donna ha deciso un giorno di portare il velo e il suo maestro di tirocinio ha detto no. Allora lei ha lasciato perdere tutto.

Eppure il velo non è un comandamento islamico! Non lo dico solo io, lo dicono anche studiosi musulmani dell’islam. Ma proprio le moschee promuovono l’uso del velo fra donne e ragazze. L’obiettivo è di rendere visibile il velo. Gli islamisti lavorano contro ogni integrazione in un contesto europeo. Il velo è un mezzo per manifestare in modo visibile la volontà di distinguersi dal resto della società.

Una società liberale non dovrebbe tollerare il fatto che delle donne vogliamo volontariamente portare un velo?

Cosa vuol dire «volontariamente»? Di fronte a un simile progetto totalitario, che fa dell’islam un programma politico, non si può parlare di volontarietà.

I musulmani sono però relativamente ben integrati nelle società di lingua tedesca. Lo ha constatato anche la Fondazione Bertelsmann nel suo ultimo studio sulle religioni.

Si tratta di propaganda elettorale tedesca. Questo studio serve semplicemente alla cancelliera Merkel, serve a confermare che tutto va bene e che non ci sono problemi. Ci sono numerosi studi che contraddicono la Fondazione Bertelsmann. In Austria il 30% dei musulmani non ha mai contatti con gli austriaci; rimangono tra di loro. È una cosa che dà da pensare. Un altro studio austriaco mostra che in oltre la metà degli asili musulmani vengono trasmessi valori che non sono conciliabili con la democrazia.

La moschea Ar’Rahman a Bienne è stata più volte al centro di polemiche. Bisognerebbe provare a chiuderla?

Perché «provare»? La si dovrebbe chiudere urgentemente e bisognerebbe chiedere conto ai suoi gestori di quel che è accaduto!

Per farlo ci vogliono motivi giuridicamente validi.

Le leggi in vigore bastano per dire: quel che Abu Ramadan ha detto, non lo tolleriamo. Sarebbe importante lanciare un segnale del genere.

Parliamo del suo libroCollegamento esterno. Sulla scorta di alcuni esempi Lei afferma che esiste una rete wahabita-salafita che trasferisce soldi e personale in Svizzera e che le strutture esistenti, apparentemente apolitiche, sono in realtà collegate a questa rete. Ma la Svizzera è davvero una piattaforma di scambio?

Quanto più a fondo mi sono occupata della questione, tanto più constato i legami tra la Svizzera e altri paesi. Predicatori erranti provenienti dai Balcani o dall’Arabia saudita sono per esempio invitati dalle moschee svizzere e poi proseguono il loro viaggio verso l’Austria, la Germania, la Danimarca, il Belgio o l’Olanda. Oppure prendiamo il caso di Omer Berisha, predicatore radicale che risiede nella città austriaca di Linz: quando raccoglie soldi per una moschea, riceve molte elemosine anche dalla Svizzera. Per il partito di un parlamentare salafita in Kosovo candidano anche persone che risiedono in Svizzera. Questi esempi dimostrano che la Svizzera è inserita in una rete salafita internazionale.

«Il problema è che l’islam organizzato in Svizzera è composto solo di rappresentanti delle moschee, perché sono gli unici a essere organizzati politicamente»

Quant’è pericoloso davvero questo influsso salafita? Nel suo libro non ci sono indicazioni sul numero di musulmani residenti in Svizzera raggiunti da questa propaganda.

Il pericolo può venire anche da una sola persona. Lo abbiamo visto in occasione dell’ultimo attentato in Spagna. Anche in Svizzera ci sono circa 90 jihadisti.

Lei scrive che «il principio della libertà religiosa, che gli Stati democratici ritengono sacrosanto», ha permesso a molte moschee di costruire una società parallela al di fuori di ogni controllo democratico. Ritiene che questa libertà religiosa vada limitata?

Questo no. Però non si può spiegare, giustificare e permettere tutto in nome della libertà di religione. L’islam politico usa in modo spregiudicato queste libertà offerte dall’Europa.

Lei è favorevole al divieto di azioni di distribuzione del Corano come quella che passa sotto il nome di «Lies!» (leggi). Allora bisognerebbe anche vietare la distribuzione gratuita della Bibbia…

Oggi la Bibbia non conduce più alla guerra santa. Nel caso di «Lies!» è provato: molte persone che hanno partecipato agli stand dell’organizzazione sono partite per la Siria. Uno su otto dei circa mille jihadisti tedeschi ha partecipato a un’azione di «Lies!». Inoltre la versione del Corano distribuita in questo modo viene stampata in Arabia saudita ed è parte di un piano globale per far arrivare il Corano tra la gente. Il suo obiettivo è di distribuire, solo in Germania, 30 milioni di esemplari.

Lei critica le autorità che accettano membri della rete wahabita e salafita come interlocutori. Qual è l’alternativa?

Il problema è che l’islam organizzato in Svizzera è composto solo di rappresentanti delle moschee, perché sono gli unici a essere organizzati politicamente. Rappresentano però solo tra il 12 e il 15% dei musulmani in Svizzera. L’85% dei musulmani, che non va nelle moschee, semplicemente non è rappresentato. Nel nostro Forum per un islam progressistaCollegamento esterno ci sono persone che digiunano, pregano e praticano quindi la loro fede, ma non frequenterebbero mai una delle moschee convenzionali.

Nel libro Lei cita numerose organizzazioni. Dovrebbero essere proibite?

Abbiamo in ogni caso bisogno di nuovi approcci politici credibili nei confronti di quegli Stati che sostengono il salafismo e anche organizzazioni terroristiche, che hanno come obiettivo l’islamizzazione di altri paesi e influenzano anche la loro diaspora in altri paesi. Dobbiamo ripensare i nostri obiettivi economici e creare nuove premesse giuridiche in modo che non ogni cittadino saudita o kuwaitiano possa creare una fondazione per trasferire soldi in Svizzera.

Lei scrive di una «strisciante infiltrazione della nostra società da parte degli islamisti». Teme davvero un’islamizzazione dell’Europa?

In parte è già in corso. Ci sono quartieri di alcune città europee, persino a Stoccolma, nella liberale e generosa Svezia, dove la polizia non entra più. Aree simili esistono anche in Belgio, Olanda e Inghilterra, a Colonia e a Berlino. Con la parola «islamizzazione» intendo che alla società non musulmana vengono imposte certe cose e interi quartieri vengono isolati dal resto della città. Queste strutture sono mafiose. Le moschee e i cosiddetti centri di cultura sono solo una facciata verso l’esterno, all’interno ci sono altre strutture, per esempio delle fondazioni.

Alla fine la domanda che le piace di meno: come vive Lei la sua fede?

È una questione personale. Non parlo di questioni personali. Mi prendo questa libertà.

L’intervista è stata pubblicata per intero sul quotidiano Bieler TagblattCollegamento esterno.

Traduzione dal tedesco di Andrea Tognina

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