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Sulle tracce degli svizzeri al servizio dell’infernale Congo di Leopoldo II

Apéro au Congo belge
È l'ora dell'aperitivo per Paul Moehr, bisnonno dello storico svizzero Patrick Minder, che lavorò come postino in Congo tra il 1902 e il 1908. Sul tavolo, una bottiglia di whisky "Black and White", la marca preferita all'epoca dagli emigranti, secondo Patrick Minder. Collection Patrick Minder

È un episodio poco studiato della migrazione svizzera nel mondo. Dall’inizio del XX secolo, un numero crescente di cittadini elvetici hanno lavorato al servizio dello Stato indipendente del Congo, proprietà esclusiva del re del Belgio Leopoldo II. L’architetto del CICR, Gustave Moynier, fu il primo console generale in Svizzera della nuova colonia.

Com’è possibile che la persona che ha permesso la costituzione del Comitato internazionale della Croce Rossa abbia potuto nello stesso tempo impegnarsi in favore dello sfruttamento intensivo e omicida del Congo da parte di Leopoldo II tra 1885 e 1908?

La gestione di questa colonia particolare – proprietà privata del re dei belgi e non dello Stato belga – causò la morte di milioni di africani (10 milioni, secondo le stime di Adam Hochschild, autore nel 1998 di un’inchiesta dal titolo Les fantômes de roi Léopold [I fantasmi di re Leopoldo], che descrive il clima di terrore instaurato in Congo per ottenere il massimo di rendimento dalla popolazione locale sfruttata).

Per capire il coinvolgimento di Gustave Moynier e la partecipazione di numerosi svizzeri all’impresa coloniale belga in Congo, cerchiamo di immedesimarci in quell’epoca.

I funzionari svizzeri dello Stato indipendente del Congo

Stando allo storico Patrick Minder, la comunità svizzera in Congo era la quarta maggiore comunità europea nel paese africano. Secondo i registri, circa 200 svizzeri si erano messi al servizio dell’amministrazione creata da Leopoldo II.

«Non erano migranti, ma lavoratori a contratto che nella maggior parte dei casi speravano di rientrare presto nel loro paese», spiega lo storico, autore del saggio D’Helvétie en Congolie (L’Elvezia in Congolia). Gli svizzeri in Congo potevano contare su buoni salari, a seconda del posto occupato. «Il tasso di mortalità tra questi impiegati era però molto alto. Circa il 25% di loro morì in Africa, per esempio a causa della malaria.»

Patrick Minder ci tiene a raccontare il destino particolare di uno di questi agenti svizzeri in Congo. Impiegato per tre anni nel 1898, il neocastellano Daniel Bersot tornò in Svizzera malato e disgustato dal suo soggiorno e pubblicò nel 1909 il resoconto Sous la chicote (Sotto la frusta), una denuncia dell’impresa di Leopoldo II.

«Se in Svizzera la maggior parte di chi criticava il re dei belgi denunciava gli eccessi della sua gestione, Daniel Bersot fu il solo a mettere in causa il principio stesso della colonizzazione, conducendo la sua lotta anche dalle pagine dell’Express e del Signal di Ginevra», nota Patrick MinderCollegamento esterno.

Nella seconda metà del XIX secolo l’Africa centrale era una regione in larga misura ignota agli europei, l’ultimo grande spazio non ancora conquistato dalle potenze coloniali del Vecchio continente. Questa situazione risvegliava curiosità e appetiti anche in Svizzera, un giovane Stato in piena rivoluzione industriale ma ancora povero.

Un’opera sulle «razze umane»Collegamento esterno per la gioventù, pubblicata nel 1872 da un rinomato divulgatore scientifico, Louis Figuier, rende bene l’idea dello sguardo occidentale sul futuro Congo, nutrito fino ad allora solo dalle impressioni di David Livingstone, missionario ed esploratore scozzese.

Nel capitolo sulla «razza nera» Figuier, a proposito degli abitanti dell’Africa centrale, scrive: «La famiglia negra ha meno intelligenza di tutte le altre famiglie umane; ma non è questa una ragione sufficiente per giustificare le persecuzioni odiose di cui questi sfortunati sono vittime. Oggi, grazie ai progressi della civilizzazione, la schiavitù è abolita nella maggior parte del mondo e i suoi ultimi resti non tarderanno a sparire. Così finirà, per onore dell’umanità, un costume barbaro, eredità terribile dei tempi passati, ripudiato dal moderno spirito di carità e fraternità. Con esso sparirà l’infame traffico chiamato tratta.»

All’epoca la tratta degli schiavi organizzata durante quattro secoli dagli europei era finita, mentre alcuni regni africani, indeboliti dalle loro rivalità, proseguivano il traffico di esseri umani in collaborazione con dei commercianti arabi. È dunque in nome del «progresso della civilizzazione», dell’evangelizzazione e della lotta contro la schiavitù che Leopoldo II presenta il suo progetto di colonia in Congo, con l’aiuto decisivo dell’esploratore inglese Henry Morton Stanley, reduce di spedizioni molto brutali e sanguinarie in un Congo ancora largamente ignoto agli europei.

Ricco protestante ginevrino, Gustave Moynier si lascia sedurre da Leopoldo II, il quale crea un’Associazione internazionale del Congo, paravento per «procurarsi una parte di questa magnifica torta africana», come confessa il re nel 1872 a uno dei suoi agenti residenti a Londra.

Furbo come una volpe

Per avere la meglio sulle altre potenze coloniali rivali, Leopoldo II si fa passare per un filantropo e un fine diplomatico; sulla carta il suo progetto offre una soluzione politica ed economica per permettere alle potenze coloniali di praticarvi il libero commercio. Il progetto è perciò approvato dalla Conferenza di Berlino sulla spartizione dell’Africa del 1885; nasce così lo Stato indipendente del Congo.

Per il ricchissimo Gustave Moynier non c’erano contraddizioni apparenti tra l’organizzazione della prima agenzia internazionale di soccorso alle vittime di guerra e la partecipazione all’edificazione della colonia congolese. I due progetti erano espressione di una visione condivisa dalle élite europee, vale a dire l’idea di portare la pace e la civilizzazione nel mondo attraverso la scienza, il libero scambio economico e l’evangelizzazione.

Paul Moehr à gauche, avec le père Magnin
Paul Moehr (a sinistra) con il padre Magnin, il 15 agosto 1909 a Poko nel distretto di Haut-Uelé (nord-est del Congo). Collection Patrick Minder

Leopoldo II, dal canto suo, cercava di attrarre degli svizzeri, appartenenti a un paese neutrale, che potevano contribuire all’immagine del suo progetto, apparentemente disinteressato e aperto agli investimenti delle aziende europee e americane.

Come scritto da Marie-Claire Berguer nel libro Les relations entre l’Etat Indépendant du Congo e la SuisseCollegamento esterno (Le relazioni tra lo Stato indipendente del Congo e la Svizzera), una tesi di laurea presentata a Bruxelles nel 1958, Gustave Moynier «fu tra i primi a occuparsi dell’attività africana di Leopoldo II partecipando alla Conferenza dell’A. I. A. (la futura Associazione internazionale del Congo, NdR) nel 1877. Fondò la prima rivista coloniale svizzera (L’Afrique explorée et civiliséeCollegamento esterno) e fu il primo console dello Stato indipendente del Congo in Svizzera.» Un incarico da cui diede le dimissioni nel 1904, pur accettando il titolo di console onorario.

Ex-delegato del CICR, Thierry Germond conduce da vari anni ricerche sugli svizzeri nel Congo di Leopoldo II. «Moynier era un uomo influente. Ha investito molte energie nell’instaurazione del Congo. Ma non ho trovato alcuna lettera, alcun documento sul suo ruolo in questa attività. Forse li ha distrutti, come ha fatto lo stesso Leopoldo II», osserva Thierry Germond.

Un reclutatore di Neuchâtel

Ma a convincere gli svizzeri a impegnarsi in Congo fu un altro agente dello Stato indipendente del Congo. Jean Boillot-Robert, console belga a Neuchâtel, pubblicò numerosi annunci e tenne molte conferenze nella Svizzera francese per reclutare dei cittadini elvetici. L’operazione ebbe un successo crescente all’inizio del XX secolo, quando già era in corso la campagna di denuncia dell’eccessivo sfruttamento del Congo.

Per rispondere a queste accuse, che in realtà nella stampa svizzera ebbero un’eco limitata, pubblicò nel 1903 il pamphlet Nos fils au continent noir. Léopold II et le Congo (I nostri figli nel continente nero. Leopoldo II e il Congo). L’obiettivo era chiaro: «Pubblichiamo quest’opera per dimostrare la sciocchezza di queste accuse. Vi parliamo della formazione dello Stato, della sua amministrazione, del suo sviluppo e completiamo l’opera con la pubblicazione di documenti inediti molto interessanti, affidatici dalle famiglie di coloro che nel continente nero sono i modesti e degni collaboratori del re sovrano.»

Chasse à l éléphant au Congo
Scene di caccia in Congo nei primi anni del Novecento. Collection Patrick Minder

Ma il Consiglio federale – che aveva riconosciuto precocemente lo Stato indipendente del Congo – finì per mettere un freno a questa propaganda. «La recente morte del figlio di Robert Comtesse, presidente della Confederazione (nel 1904 e nel 1910), deceduto in Congo dopo essere stato reclutato da Boillot-Robert aveva fatto crescere le reclamazioni elvetiche nei suoi confronti», scrive Marie-Claire Berguer.

Una campagna internazionale contro Leopoldo II

La campagna contro l’amministrazione di Leopoldo II in Congo, che prefigurava le mobilitazioni internazionali della società civile nelle forme che conosciamo oggi, trovò agganci a Ginevra a partire dalla fine del XIX secolo. È il caso del giornalista René Claparède, che divenne presidente della Lega svizzera per la difesa degli indigeni e dell’Ufficio internazionale per la difesa dei diritti dei popoli.

Fino a quel momento ostile alla campagna di denuncia delle malefatte dell’amministrazione di Leopoldo II, il Journal de Genève prese le distanze dall’impresa congolese del re dei belgi pubblicando nelle sue edizioni del 17 e 18 novembre 1908 un testo di René Claparède intitolato «La civilizzazione del Congo» che comincia così: «Da qualche anno, ma soprattutto da qualche mese, ci arrivano con insistenza strani rumori sullo Stato indipendente del Congo. Per ottenere dal caucciù un rendimento vantaggioso, funzionari del governo e agenti delle compagnie concessionarie esercitano una pressione atroce – si dice – sulla popolazione indigena.»

Seguiva una serie di recriminazioni per la rinuncia al progetto evangelizzatore e civilizzatore presentato agli inizi dell’impresa e per il prevalere di un’operazione di puro sfruttamento economico. Messo sotto pressione, Leopoldo II finì per donare la sua colonia al Belgio. Lo scandalo internazionale suscitato dalle forme di feroce sfruttamento adottate in Congo  fu spazzato via dalla Prima guerra mondiale.

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