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Gli svizzeri vogliono “decolonizzare” i beni culturali

Maori artist
Il museo MEG di Ginevra ha invitato un artista Maori a creare una nuova esposizione intorno ai teschi Maori. Johnathan Watts/MEG

Mentre i paesi europei riesaminano il loro passato coloniale, la restituzione di beni culturali trafugati è diventata una questione scottante. Questo non riguarda solo i paesi di origine, ma anche il modo in cui tutti noi ci relazioniamo al nostro passato. Una storia che coinvolge anche la Svizzera.

“È il momento giusto per riflettere su questo tema visto l’attuale dibattito sulla restituzione degli oggetti presi durante il periodo coloniale – racconta il professore di diritto dell’arte Marc-André Renold dell’Università di Ginevra (UNIGE) -. In realtà – aggiunge – è anche il momento di agire più che di riflettere”. Black Lives Matter ha aumentato la pressione, mentre paesi come Francia e Germania sono molto impegnati a riesaminare il loro passato coloniale. Ad esempio, il parlamento francese ha recentemente deciso di restituire al Senegal e al Benin alcuni artefatti sequestrati durante il periodo coloniale che sono stati esposti nei musei parigini.

La Svizzera non ha avuto colonie, ma come sottolinea Boris Wastiau, direttore del Museo etnografico di Ginevra (MEG), c’è chi in Svizzera del colonialismo ne ha beneficiato. Beni culturali sono stati portati in Svizzera da diplomatici, esploratori, scienziati, soldati, missionari e altri ancora, e i ricchi musei svizzeri ne sono pieni. Boris Wastiau è convinto che sia giunto il momento per i musei elvetici, come anche per il suo, di “decolonizzare”, ma questo non significa necessariamente restituire tutto.

“Il popolo piangeva”

Marc-André Renold guida un piccolo team che ha sviluppato una banca datidi casi di restituzioneCollegamento esterno da tutto il mondo, con il supporto dell’UNESCO. Documenta circa 150 casi che coinvolgono Stati, individui, musei e molti tipi di oggetti. 

Alcuni di questi oggetti hanno un enorme significato culturale. Uno dei casi citati dai ricercatori dell’UNIGE è una figura di pietra di 2000 anni fa della divinità Ekeko, che è stata restituita alla Bolivia dal Museo di storia di Berna nel 2014.

Nel XIX secolo, l’esploratore e diplomatico svizzero Johann Jakob von Tschudi avrebbe scambiato la statuetta con una bottiglia di cognac durante un viaggio sull’altopiano andino. Come raccontano i ricercatori dell’UNIGE, von Tschudi scrisse nel suo diario che la gente piangeva quando se ne è andato. Questa statuetta rappresentava fortuna e prosperità per la loro comunità, ma lui la prese comunque.

Al MEG, l’unico caso di restituzione finora, ricorda Wastiau, è stato nel 1992 quando il museo ha restituito una testa Maori alla Nuova Zelanda Collegamento esternodapprima come prestito, e poi nel 2011 come restituzione definitiva. Il museo ha conservato le fotografie dell’oggetto. Wastiau sottolinea che i resti umani sono particolarmente sensibili.

Soluzioni diverse

Le richieste di restituzione di beni culturali possono spesso portare a controversie che a volte finiscono in tribunale. La banca dati di UNIGE dei casi di restituzione (“ArThemisCollegamento esterno“), che è open-source e bilingue (inglese e francese), è stata avviata nel 2010, come spiega Marc-André Renold, per “capire come vengono risolte le controversie relative al patrimonio culturale”.

Il suo team non è partito con idee preconcette sui metodi preferiti dai paesi in causa e ha preferito inizialmente focalizzarsi direttamente sui casi giudiziari. Ma quando hanno creato il database, chiarisce ancora Marc-André Renold, hanno scoperto che “anche se andare in tribunale è tuttora un’opzione a cui i ricorrenti optano, sempre più spesso ci sono altri modi per risolvere queste diatribe, come l’arbitrato internazionale, la mediazione, la conciliazione o anche la semplice negoziazione”. I musei occidentali spesso non vogliono andare in tribunale, dato il danno alla loro reputazione che ciò potrebbe comportare.

“La prima cosa che abbiamo notato è la diversità delle procedure e delle soluzioni”, ha dichiarato Renold a swissinfo.ch. “Se si va in tribunale la risposta sarà generalmente bianco o nero: si vince o si perde, si ottiene la restituzione o non la si ottiene. Se si utilizzano metodi alternativi, diciamo la negoziazione o la mediazione, si possono trovare soluzioni diverse e originali”.

Mediazione svizzera

Interrogato su casi emblematici, Marc-André Renold ne cita tre: il ritorno in Italia nel 2006 del Cratere di EufronioCollegamento esterno dal Metropolitan Museum of Art (MET) di New York, che ha dato il via a una serie di importanti restituzioni dai musei americani all’Italia; un contenzioso di matrice nazista tra l’Austria e Maria Altmann per un dipinto di Klimt che è stato risolto con un arbitrato. La donna, tra l’altro è stata interpretata da Helen Mirren nel film Woman in Gold; e un caso del 2006 tra due cantoni svizzeriCollegamento esterno, mediato dal governo elvetico.

Il mappamondo causa della disputa
Il governo svizzero ha mediato una disputa tra due cantoni svizzeri su un antico mappamondo e su manoscritti presi durante la guerra civile.

Marc-André Renold ritiene che la neutrale Svizzera possa avere un ruolo di mediatore nella risoluzione delle controversie su queste questioni “anche perché non è stato uno Stato colonizzatore”. E mentre il Centro di diritto dell’arte dell’UNIGE rimane concentrato principalmente sulla ricerca, ha iniziato a ricevere richieste di aiuto per la mediazione nelle controversie internazionali in materia di beni culturali. 

Il MEG di Ginevra ha aiutato a mediare il caso delle mummie di ChinchorroCollegamento esterno, restituite al Cile nel 2011 su base volontaria da un privato cittadino elvetico. “Anche questo è un ruolo che possiamo svolgere”, afferma il direttore del museo Boris Wastiau.

Decolonizzazione dei musei

Nel frattempo, i musei stanno ripensando il modo in cui presentano le loro collezioni. Un tema che appassiona Boris Wastiau, nato in Belgio, dove una commissione parlamentare sta esaminando il violento passato colonialeCollegamento esterno del paese nell’Africa centrale. Il MEG è stato fondato nel 1901 e ha costruito una collezione di oggetti provenienti dalle colonie di tutto il mondo. Ora, sotto la sua direzione, il museo ha presentato una strategia di “decolonizzazione” per il periodo 2020-24.Collegamento esterno

L artista Maori George Nuku al MEG.
L’artista Maori George Nuku al MEG. Johnathan Watts/MEG

Questo porta a ripensare il modo in cui le collezioni vengono presentate e, in ultima analisi, ad eliminare la parola “etnografia”. Significa anche comunicare e impegnarsi con le comunità di origine e con il pubblico in generale. Per esempio, racconta ancora Wastiau a swissinfo.ch, il museo ha ospitato un artista Maori che “ha realizzato un’esposizione completamente nuova intorno alla vetrina dove sono stati esposti i manufatti Maori”. Il museo sta anche progettando mostre interdisciplinari attorno a temi moderni come l’ambiente e il buon governo per esempio, con il contributo di scienziati, fotografi e artisti.  

“Quello che dobbiamo fare è riconoscere che l’etnografia è una scienza morta in un certo senso”, continua Wastiau. “In secondo luogo, che alcune persone si sentono alienate da questo tipo di museo perché si sentono travisate, o non vedono perché dovremmo dare questo tipo di immagine del loro paese d’origine”.

Resti umani 

Una testa Maori presente nel museo.
Il MEG ha restituito una testa Maori alla Nuova Zelanda nel 2011.

Il MEG cerca attivamente anche le comunità da cui provengono i suoi oggetti, soprattutto se sono sacri o sensibili come i resti umani, aggiunge Wastiau. Molti oggetti sono scarsamente documentati e a volte non identificati correttamente, “quindi per noi è molto importante che ogni volta che portiamo degli esperti indigeni, questi possano identificare qualche oggetto”. 

Il suo museo conserva ancora alcuni resti umani che sono stati trasformati in artefatti, come ossa trasformate in flauti e teschi dipinti provenienti dall’Australia. Nel caso di questi teschi, il curatore del MEG ha cercato per 20 anni i proprietari. Ci sono state delegazioni di esperti aborigeni al museo, ma finora i teschi non sono stati reclamati. Ora potrebbero essere restituiti a un nuovo centro australiano per i resti umani non reclamati.

“Nel caso di molte nazioni native, vogliono il ritorno dei loro antenati. Vogliono la restituzione degli oggetti che sostengono essere i loro antenati”, dice Wastiau. Ma non è sempre così. Per esempio, c’è una comunità Kanak in Nuova Caledonia che ritiene che i loro oggetti siano “ambasciatori” della loro cultura e che è “orgogliosa” che rimangano nei musei di altri paesi. Se questi Kanak chiedono la restituzione di oggetti specifici, ritengono che debba essere uno scambio, secondo la loro tradizione.

Anche i musei di altre regioni della Svizzera stanno ripensando al loro patrimonio coloniale, secondo quanto riportato recentemente Collegamento esternodalla televisione pubblica svizzera RTS. 

Importante per le nuove generazioni

Un rapporto francese Collegamento esternodel 2018 commissionato dal presidente Emmanuel Macron sulle restituzioni all’Africa afferma che “lo sviluppo dei giovani africani in particolare è messo in pericolo dalla perdita dei loro diritti al patrimonio artistico e culturale”, molti dei quali si trovano nei musei occidentali. 

Boris Wastiau dice che questo tema è importante anche per le persone in Svizzera, soprattutto per i giovani. Cita l’esempio di una giovane artista ventenne che ha contribuito a una mostra al Palais de Rumine di Losanna. “Quando si rese conto di avere un antenato che aveva fatto soldi con la tratta degli schiavi, era assolutamente sconvolta, davvero scioccata e commossa – racconta Wastiau – e la ragazza sta ora cercando delle risposte”. Wastiau aggiunge che vuole che anche il suo museo sia responsabile nei confronti di questa nuova generazione.

Per lui è importante che la gente si senta benvenuta al MEG e libera di sfidare il museo e le sue collezioni. “Ecco perché uno degli aspetti della decolonizzazione è quello di essere molto più partecipativi, di cercare davvero tutti gli interessati, di portarli al museo, di coinvolgerli, di ascoltarli”, afferma. “E solo quando si sentiranno parte del progetto del museo che quest’ultimo smetterà di sembrare un luogo coloniale”.

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