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Eternit e la “vedova dell’amianto”

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di Aldo Sofia

Non c’è cronista che, arrivato a Casale per occuparsi di Eternit, non sia salito da lei, nel suo piccolo appartamento, una casa “che sa di buono”, tante foto e tanti ricordi, ma dove per anni si era respirata la povere di amianto che ha ucciso prima il marito Mario, ex operaio nella “fabbrica dei veleni”, poi la figlia Maria Rosa, che nello stabilimento non ci aveva mai messo piede; lo stesso veleno che le ha portato via anche la sorella e due nipoti.

Lei, la “vedova dell’amianto”, Romana Blasotti Pavesi, 85 anni, diventata il simbolo della lotta dei famigliari delle 3.000 vittime del mesotelioma pleurico, delle microscopiche fibre cancerogene che non lasciano scampo, delle particelle affilate che lacerano i polmoni. Lei, combattiva e determinata, ma che ieri, alla lettura della sentenza, ha detto di “non avere più lacrime per piangere”.

Da Casale, per le volte che ci sono stato, ripartivo con un senso di incredulità e sgomento. Le immagini del grande stabilimento chiuso da decenni e immerso in un sinistro silenzio, le foto in bianco e nero di operai e operaie inconsapevolmente a contatto con l’ignoto killer, il racconto dei malati, la rabbia dignitosa dei loro cari. E la conta dei nuovi casi.

Si, soprattutto questo: il sapere che ancora oggi la polvere d’amianto continua ad uccidere, di media un morto alla settimana, e il “picco” dei decessi che secondo gli specialisti deve ancora arrivare. Tante vittime che ancora non sanno di esserlo, a Casale ma anche in altre città italiane, in Emilia e in Campania: dove la lavorazione dell’amianto, da sogno (il salario dignitoso, un posto di lavoro sicuro, un materiale resistente e “buono” per tante cose, dai vialetti nei giardini ai tetti di casa) si é trasformato in incubo. La peste bianca. La cui pericolosità venne denunciata per la prima volta nel 1964 dall’americano Selikoff (ma ci vorrà molto tempo prima di finire fuorilegge). E che continua a uccidere.

Eppure, la sentenza che annulla la condanna (18 anni, più 95 milioni di euro di risarcimento) e scagiona l’ex proprietario di Eternit, lo svizzero Stephan Schmidheiny, sempre dichiaratosi innocente, si ferma al 1986. Lì – dicono in sostanza i giudici della Cassazione – finiscono le responsabilità di Eternit per “disastro ambientale”. Finiscono 28 anni fa. Quindi, il reato é prescritto. Quel che c’é stato dopo, non conta. E nemmeno quel che succede ancora oggi, e che inevitabilmente accadrà domani. Migliaia di morti, passati e futuri, ma nessun colpevole.

Certo, il diritto é diritto. Tecnicamente la sentenza appare beffarda, ma non é discutibile. Eppure é evidente che qui la legge fa scempio della giustizia. Prevale la prima, non la seconda. Del resto lo ammette lo stesso procuratore generale della Cassazione che ha emesso il verdetto, Francesco Iacoviello. Che ha dichiarato testualmente: “Per me l’imputato é responsabile di tutte le condotte che gli sono state ascritte. E’ vero che la prescrizione non risponde alle esigenze di giustizia, ma stiamo attenti a non piegare il diritto alla giustizia: il giudice, soggetto alla legge, deve scegliere il diritto”.

Ora la procura di Torino (che ha raccolto le 220.000 pagine del “processo del secolo”) si affida al cosiddetto “Eternit bis”. Stavolta l’accusa non sarà “disastro”, ma omicidio per 213 casi. Puro accanimento, protestano gli avvocati di Schmidheiny. Mentre la signora Romana Blasotti Pavesi, “la vedova dell’amianto” e presidente dell’Associazione vittime dell’amianto, dice di volerci ancora credere. Le rimane un filo di fiducia nelle leggi dello Stato. Paradossalmente, lo stesso Stato che le ha concesso il titolo di commendatore. Proprio per il suo impegno nella ricerca di una giustizia sconfitta dal diritto.

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