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I voli della speranza

gruppetto di rifugiati arrivati all aeroporto di fiumicino grazie ai corridoi umanitari
Un gruppo di rifiugiati arrivati dal Corno d'Africa all'aeroporto di Fiumicino lo scorso febbraio grazie ai corridoi umanitari. Keystone

Permettere a determinati rifugiati particolarmente vulnerabili di emigrare in Italia attraverso vie legali e sicure: è l'obiettivo dei "corridoi umanitari", un progetto ecumenico delle chiese cattoliche e protestanti italiane a cui si sta guardando con interesse anche in Svizzera.

Abdu, eritreo di 28 anni, era nel volo atterrato a Roma Fiumicino il 25 febbraio scorso, che ha portato in salvo 113 profughi beneficiari dei “corridoi umanitari”.Collegamento esterno

Difficile capire cosa passasse per la sua mente in quel “volo della speranza”. Teneva in braccio suo figlio Romedan, di quasi due anni, che dormiva, ormai al sicuro. Al suo fianco la giovanissima moglie Fatuma. Difficile dire se in quelle ore abbia mai ripensato al suo passato, ormai dietro le spalle per chissà quale gioco fortuito del destino. Difficile dire se potrà mai dimenticare la vita e le persone che ha lasciato lì al campo. Una volta a Roma il sorriso di Abdu mostrava tutta la sua riconoscenza.

All’età di 18 anni è scappato dal campo di addestramento militare a cui sono destinati tutti gli studenti all’ultimo anno per concludere le scuole superiori in Eritrea. Nel tentativo di espatriare è stato arrestato ed ha scontato sei mesi di carcere. Tornato in libertà è fuggito di nuovo, questa volta definitivamente, trovando rifugio nel campo profughi di Mai Aini nella regione del Tigray nell’Etiopia settentrionale, non molto distante dal confine eritreo.

Nel campo ha conosciuto Fatuma, l’attuale moglie, un’adolescente eritrea fuggita da un matrimonio forzato con un cinquantenne benestante, impostole dalla famiglia, rivelatosi un violento.

La dura vita dei campi

Abdu e Fatuma si sono sposati nel campo profughi e hanno avuto Romedan, nato settimino nelle carenti condizioni sanitarie del campo. Abdu ha a suo carico anche il cugino Mohammed, non più autosufficiente per una disabilità mentale provocata, si sospetta, dalle torture subite nelle carceri eritree.

La vita nel campo è stata dura per loro. La temperatura sale molto durante il giorno e la terra, arsa dal sole, è secca e polverosa. Le condizioni sanitarie sono precarie. La malaria è endemica in quelle zone, ogni tanto qualcuno viene colpito.

campo profughi in Etiopia, con delle baracche in primo piano
Il campo profugi di Mai Aini, in Etiopia, dove Abdu ha vissuto per nove anni. tvsvizzera

Il cibo è contingentato, l’Etiopia è periodicamente vittima di carestie dovute alla siccità. L’ultima, nel 2016 mise la popolazione in ginocchio e la regione più colpita fu proprio il Tigray la zona dei profughi eritrei.

Quasi un milione di disperati

L’Etiopia – nonostante l’aggravarsi dei conflitti inter-etnici che, nel mese scorso, hanno provocato le dimissioni del primo ministro e la proclamazione dello stato d’emergenza sotto il controllo militare – è l’unico paese stabile del Corno d’Africa, un approdo sicuro per una moltitudine di profughi che ormai arrivano da tutti gli Stati confinanti.

Secondo un rapporto di Unhcr e Amnesty International, aggiornato allo scorso ottobre, i rifugiati presenti in Etiopia sono 883’000 e sono in aumento, nel 2012 erano quasi un terzo, 303’000. La maggior parte dei rifugiati, circa la metà del totale, proviene dal Sud Sudan dove è in corso una guerra civile che sta degenerando nella pulizia etnica della minoranza Shilluk e finora ha provocato un esodo di 2 milioni e mezzo di persone.

In questo inferno Abdu, per nove anni, ha resistito alla tentazione di prendere la via della Libia. Ha creduto nella possibilità di una soluzione legale, di un modo sicuro per lasciare il campo e raggiungere l’Europa, l’unica salvezza possibile. I profughi eritrei non hanno più nessuna speranza in un miglioramento delle condizioni di vita nel loro paese, non credono in nessuna possibilità di tornare indietro. Per loro, se esiste un futuro è sicuramente altrove.

La speranza di una nuova vita

Abdu, grazie ai corridoi umanitari, ora vive con la sua famiglia ad Arezzo, in Toscana. Dove Romedan riceve le cure necessarie per crescere al meglio e Mohammed ha finalmente un sostegno psicologico.

Abdu e la sua famiglia fanno parte di un gruppo di 113 profughi del Corno d’Africa beneficiari dei “corridoi umanitari” – eritrei per la maggior parte, sud sudanesi e somali – che volontari e operatori umanitari delle Chiese italiane hanno selezionato nei campi profughi ed accompagnato con tutte le cure fino alla sistemazione nei loro alloggi, nelle 18 Caritas diocesane distribuite in tutta la penisola. Un lungo e laborioso cammino, non privo di difficoltà, durato mesi.

Tutto è nato lo scorso luglio, quando Giancarlo Penza e Cecilia Pani, due volontari della Comunità cattolica di Sant’Egidio di Roma, sono partiti per l’Etiopia per avviare le procedure dei “corridoi umanitari”. Insieme a due operatori della Caritas italiana: Oliviero Forti, responsabile dell’immigrazione e il coordinatore del progetto Daniele Albanesi. Con la mediazione dell’Ambasciata italiana ad Addis Abeba, hanno stretto i primi accordi con il vice ministro degli esteri etiope e con l’agenzia governativa Arra, organo che gestisce l’immigrazione in Etiopia.

Priorità ai più vulnerabili

Il settembre successivo, Giancarlo e Cecilia erano già operativi sul territorio etiopico per visitare i campi profughi ed incontrare i rifugiati più vulnerabili, segnalati loro dalle realtà umanitarie locali come le congregazioni religiose, l’Alto commissariato dell’ONU per i rifugiati (Unhcr) e l’associazione Gandhi Charity, molto attiva nei campi profughi della regione del Tigray.

I primi file contenenti il lavoro dettagliato di Giancarlo e Cecilia, sulla biografia, le caratteristiche e le criticità dei rifugiati, vengono spediti in Italia dove si predispongono le sistemazioni più adeguate ad ogni singolo caso. Si dà la priorità a persone in condizioni di particolare vulnerabilità come bambini non accompagnati, famiglie senza un genitore, malati, disabili. Una scelta che può dimostrarsi difficile in un contesto in cui le vulnerabilità sono molto diffuse e non c’è la possibilità di portare in salvo tutti.

Il primo dicembre un volo porta in Italia i primi 25 profughi africani dall’Etiopia, mentre il lavoro di Giancarlo e Cecilia ha preso un buon ritmo. I volontari di Sant’Egidio, dalla regione del Tigray nell’Etiopia settentrionale, chiedono alle diocesi italiane di acquisire altre disponibilità di alloggi per il trasferimento di un grande gruppo di profughi, le 113 persone arrivate in Italia lo scorso 25 febbraio, tra cui Abdu e la sua famiglia.

bambini in un campo profughi in Etiopia
Tra i rifugiati nel campo profughi di Mai Aini vi sono moltissimi bambini. tvsvizzera

Lasciato il campo profughi Mai Aini nella regione del Tigray. Abdu e la sua famiglia hanno affrontato un viaggio di cinque giorni in pullman per raggiungere Addis Abeba. Nella capitale, insieme alle altre famiglie di profughi del progetto dei “corridoi umanitari”, si sono stabiliti in un appartamento preso in affitto dalle organizzazioni umanitarie.

Da fine gennaio al momento del volo per Roma, hanno vissuto lì, in modo da poter sbrigare le procedure burocratiche, fare le visite mediche obbligatorie per poter raggiungere l’Italia. In quel lasso di tempo Giancarlo Penza di Sant’Egidio e Daniele Albanesi, coordinatore della Caritas italiana, hanno effettuato dei colloqui individuali con le famiglie per informarle sulla loro destinazione in Italia, mostrando loro i luoghi e le persone che li avrebbero assistiti una volta a destinazione.

Giancarlo Penza e Daniele Albanesi, insieme a Oliviero, Cecilia e Alganesh, hanno poi provveduto a tutto il necessario fino all’arrivo a Roma Fiumicino, dove il gruppo dei “corridoi umanitari” era atteso da un piccolo cerimoniale”.

Un modello d’immigrazione?

La speranza degli operatori umanitari è che i canali di fuga sicuri vengano seguiti e replicati, come è successo nel caso del primo “corridoio umanitario” che le Chiese italiane hanno creato in Libano nel 2015, per la crisi umanitaria in Siria. Il canale ha portato in salvo, nelle strutture della Chiesa, oltre mille profughi siriani ed è stato emulato da Francia e Olanda.

 Interessa anche in Svizzera

Lo scorso 5 marzo, due organizzazioni elvetiche, l’Aiuto delle chiese evangeliche svizzere (ACES) e l’Organizzazione svizzera di aiuto ai rifugiati (OSAR), hanno lanciato la petizione “Vie sicure e legali per i profughi”. L’obiettivo è di sensibilizzare la Confederazione, richiamandola ai suoi obblighi umanitari ed internazionali.

L’iniziativa ricorda che ci sono molte persone bisognose d’aiuto mentre l’Europa continua a barricarsi, rendendo il diritto alla protezione sempre più inaccessibile. L’obiettivo delle chiese evangeliche svizzere ACES/HEKS è seguire l’esempio della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI) – organismo che co-promuove il progetto dei “corridoi umanitari” in Libano ed Etiopia – proponendo l’ingresso annuale di 10 mila profughi particolarmente vulnerabili in territorio elvetico.

La petizione chiede inoltre che vengano create basi giuridiche per agevolare le procedure di sistemazione, formazione e integrazione dei rifugiati in Svizzera ed un maggiore sostegno ai programmi di finanziamento per le attività umanitarie all’estero.

La Chiesa è stata l’unica istituzione a reagire con nettezza – proprio in quel periodo di grandi tragedie dei profughi, nel Mediterraneo e lungo le vie migratorie del deserto e della Libia – invocando la necessità di canali sicuri d’accesso all’Europa per i migranti più vulnerabili e disperati. Rivendicando il diritto di esercitare la carità, controcorrente rispetto ai diffusi segnali di chiusura verso l’immigrazione.

Un ambiente di relazioni umane che non si limita all’aiuto burocratico per la richiesta dell’asilo politico, la formazione, l’inserimento sociale e lavorativo. I “corridoi umanitari” si propongono come modello di immigrazione virtuoso, privo di effetti collaterali, come il rischio di tensioni sociali o di oneri economici per la popolazione accogliente, trattandosi di un progetto finanziato interamente dalla Chiesa, con i proventi dell’8 per mille.

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